DELITTI TRIBUTARI - Le investigazioni del Dott. Massimo Rinaldi: "Simulazione assassina"
di Nereo Seppia
Quando il telefono squillò, Massimo Rinaldi era immerso in una consulenza tecnica di parte che avrebbe dovuto consegnare entro due giorni. Guardò il display: era Antonio Sassi, ispettore di polizia, suo amico dai tempi del liceo. Non si sentivano da mesi.
«Massimo, ciao, ho bisogno di te. Omicidio in uno studio commerciale. La scena è... insolita. Mi raggiungi?».
Rinaldi esitò. Non era un investigatore, era un dottore commercialista, ma aveva aiutato la polizia in passato per la sua capacità di cogliere dettagli che gli altri ignoravano. Prese la giacca e uscì.
L'ufficio di Ettore Vinci, commercialista conosciuto in città, si trovava in un vecchio palazzo nel centro storico. Quando Rinaldi arrivò, trovò Sassi ad attenderlo sulla soglia: «Vinci è stato ucciso nel suo studio. Colpito alla testa con un oggetto contundente. Ma c'è qualcosa di strano. Vieni a vedere».
La scena del crimine era ordinata. Il corpo di Vinci era riverso sulla scrivania, il viso rivolto verso un codice aperto riguardante l’accertamento delle imposte sui redditi.
«Sembra un messaggio», disse Rinaldi, osservando il testo aperto. Lo sguardo si soffermò su un articolo, il 37 del Dpr 600/1973, macchiato di sangue in corrispondenza del terzo comma. Norma che Rinaldi conosceva bene, ma che lesse ad alta voce a beneficio dell’amico ispettore e degli altri agenti di polizia lì presenti: “In sede di rettifica o di accertamento d'ufficio sono imputati al contribuente i redditi di cui appaiono titolari altri soggetti quando sia dimostrato, anche sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, che egli ne è l'effettivo possessore per interposta persona”.
«Cosa vuol dire, Massimo? E cosa voleva dire Vinci?», domandò Sassi.
Rinaldi, prima, si accigliò e, poi, si concentrò sulle parole da utilizzare per provare a spiegare in termini semplici una questione tributaria che semplice non era.
«Dunque» - avventurandosi in una spiegazione a prova di uomo della strada - «l’articolo 37, terzo comma, è una disposizione impegnata a intercettare vicende simulatorie, caratterizzate dalla manipolazione della realtà, come certamente è l’interposizione fittizia di persona. Una norma che contrasta, quindi, fenomeni di evasione fiscale. Aggiungo, ma potremmo fermarci qui, che l’interposizione reale, invece, è attratta nel perimetro delle operazioni elusive, ma solo ove la condotta comporti un vantaggio fiscale indebito». Mentre parlava provava a capire dalle espressioni del viso di Sassi se la spiegazione poteva aver raggiunto lo scopo o meno.
Fu l’amico a togliergli quel dubbio: «Però, se ho ben capito, l’indizio punta a indicare un tema di interposizione fittizia di persona e quindi di evasione, è giusto?».
Rinaldi a quel punto si sentì sollevato: «Assolutamente, sì!», rispose.
L’ispettore si strinse nelle spalle: «Va bene, stiamo controllando i suoi fascicoli, ma abbiamo trovato una chiavetta usb nascosta nella cassaforte… però è cifrata, ci vorrà un po’ per riuscire a leggerne il contenuto».
«Posso vedere la sua agenda?», chiese Rinaldi.
Sfogliò le ultime pagine. Un nome compariva spesso negli ultimi giorni: A. Capuano. Accanto a quel nome, orari di appuntamenti cancellati e riscritti. «Capuano… quel Capuano?», chiese.
Sassi si grattò preoccupato il mento: «Temo di sì, Andrea Capuano. Imprenditore nel settore edilizio, politico locale di spicco e già Parlamentare. Noto alle cronache per bancarotta fraudolenta, ma mai condannato… la prescrizione…».
Rinaldi sapeva che certi affari non si fermavano alle carte bollate: «Vinci potrebbe aver scoperto qualcosa che non doveva? Magari qualcuno gli aveva chiesto un coinvolgimento professionale diretto in qualcosa di illecito?».
Domande, tante domande, accomunate da un unico punto interrogativo. Sassi sospirò. «Possibile. E se lo ha scoperto potrebbe aver lasciato traccia nella chiavetta. Dobbiamo decifrarla subito. La scientifica è già al lavoro, questione di ore».
Mentre parlavano, una musica lontana arrivò da un bar sotto lo studio. Un brano di Fabrizio De André: il Testamento di Tito.
«Antonio, ascolta le parole», disse Rinaldi - … Non dire falsa testimonianza e aiutali a uccidere un uomo, lo sanno a memoria il diritto divino e scordano sempre il perdono. Ho spergiurato su Dio e sul mio onore e no, non ne provo dolore… – «è una canzone che dà voce a Tito, uno dei due ladroni crocifissi accanto a Gesù, che prima di morire rilegge i Dieci Comandamenti, ma, invece di accettarli come dogmi morali assoluti, denuncia l’ipocrisia delle istituzioni religiose e civili, che impongono regole morali spesso violate dagli stessi che le promulgano. Una riflessione profonda sulla giustizia, sull’etica e sul rapporto tra legge e potere».
Il giorno dopo arrivarono i risultati dei dati salvati sulla chiavetta, Rinaldi fu convocato in Questura per leggerli e fornire ulteriori indicazioni per l’indagine. Qualche ora più tardi Capuano fu arrestato. Durante la perquisizione del suo ufficio fu ritrovata una statuetta di bronzo con macchie di sangue: l’arma del delitto. Si sentiva così onnipotente da non aver pensato neanche di occultarla.
Capuano, in concorso con altri soggetti, avrebbe voluto coinvolgere Vinci in una cessione di quote societarie simulata, con interposizione fittizia di persona. Il disegno era quello di utilizzare l’ente giuridico per finalità illecite, con potenziali risvolti e responsabilità sia in ambito amministrativo che penale. Vinci si era evidentemente sottratto al disegno criminale, pagando con la vita la propria integrità professionale.
Uscì dal commissariato e si diresse verso il suo studio. La notte era calata sulla città e nel silenzio delle strade risuonavano nella sua mente ancora le parole di De André, un avvertimento sull’ipocrisia del potere e sulla fragilità della giustizia.
La vita doveva andare avanti, ma con una consapevolezza in più: alcune battaglie si combattono nei tribunali, altre negli uffici e nelle indagini, ma le più importanti si giocano nella coscienza di chi sceglie da che parte stare.