A volte sembra che le scelte di indebitamento di un’impresa si riducano a semplici conteggi legati al costo degli interessi. Spesso si considera il ricorso al debito bancario come una necessità ineludibile; altre volte, non ci si vuole indebitare perché si pensa che usare soldi propri costi meno. Ma è davvero (solo) così? Qualsiasi debito, per pari importo, è uguale? Genera lo stesso effetto? È meglio indebitarsi o usare soldi propri, per quelle (poche) imprese che investono? E investire in un nuovo impianto è uguale ad investire in un capannone in cui mettere il nuovo impianto? Investire in un nuovo prodotto o in un nuovo mercato è uguale ad investire per aumentare la produzione su prodotti già rodati? Oppure cambia qualcosa?
Innanzitutto, cambia il rischio. Non (solo) la sua percezione, che spesso inganna; cambia proprio la rischiosità (misurabile) dell’impresa, al variare della tipologia di investimento e di quali fonti finanziarie vengono utilizzate per realizzarlo.
Intanto, nel nostro ragionamento, possiamo partire affermando che esiste un debito buono e uno cattivo.
Il primo, è quello associato a condizioni di crescita di efficienza finanziaria (per i più esperti: incremento di ROI, cioè margine operativo su capitale investito, maggiore dell’incremento di ROD, cioè oneri finanziari su debiti finanziari) e a condizioni di sostenibilità dei rimborsi nel tempo (quindi, nell’ordine: DSCR positivo e mix delle fonti finanziarie – rapporto tra capitale proprio e indebitamento – non eccessivo, in relazione alla capacità di generazione di flussi di cassa di ciascuna impresa). Potremmo definirlo anche come debito “da investimento” (sia esso in beni strumentali che immateriali o, ancora, nel ciclo di circolante).
Il secondo, invece, che potremmo definire debito “da sostituzione”, è quello che in passato veniva acceso per sostituire capitale proprio (il cd. fenomeno delle “thin capitalization”, dette anche, in italiano arcaico, “triangolazioni”: ovvero quando, invece che immettere capitale iniziale, i fondi dell’imprenditore venivano investiti finanziariamente e messi contestualmente a garanzia di un debito caricato all’impresa, per fruire della – vigente in passato – totale deducibilità degli interessi passivi, in capo all’impresa, e della – allora – minore tassazione del reddito da investimenti rispetto al reddito d’impresa). O quello che oggi si accende per mera sostituzione di debito già esistente, senza “nuovi” investimenti; ovvero ancora, per sostenere mere sostituzioni di impianti e macchinari ormai obsoleti, senza che vi sia incremento di produttività. In tutti e tre questi casi, infatti, il debito (a volte anche il “maggior” debito) acceso è associato a sostanziale stabilità (se non diminuzione) di ROI – ragionando, in astratto, a parità di ogni altra condizione economica – e a sostanziale (se non progressivamente in riduzione) generazione di flussi di cassa, esponendo maggiormente l’azienda al “rischio tassi” (che genererebbe un incremento del ROD) e al “rischio rinnovo” (per la maggior esposizione al rischio di shock di mercato).
Il primo, genera nel tempo (sul presupposto che i nuovi investimenti abbiano avuto successo, ma questo rientra nel concetto di rischio d’impresa, non in quello di rischio finanziario tout court) un effetto di riduzione del WACC (come già esposto in un precedente articolo su questa rivista) e quindi una convenienza ad indebitarsi per avere una maggiore “potenza di fuoco” finanziaria per sostenere gli investimenti.
Il secondo, genera nel tempo un effetto di incremento del WACC (poiché vi è minore confidenza che l’impresa riesca nel tempo a sostenere i rimborsi, per via della progressiva minore competitività di mercato e della minore incidenza degli ammortamenti – non effettuando nuovi investimenti – e per i progressivi maggiori costi indiretti – per manutenzioni, per consumi energetici, per maggiori imposte avendo meno ammortamenti), riducendo il proprio merito creditizio.
Ricordando, altresì, che – essendo il WACC comunemente utilizzato, nelle formule finanziarie per calcolare il valore delle imprese, come tasso di attualizzazione delle stime di flussi di cassa futuri – la minore o maggiore rischiosità incide, in misura inversamente proporzionale, sul valore dell’impresa stessa.
Ne consegue che anche dal lato del soggetto finanziatore vengono tenuti in debito conto, nelle valutazioni del merito creditizio e, quindi, della concessione di nuovi finanziamenti, i medesimi ragionamenti, che impattano nel calcolo della “probabilità di default” che, a sua volta, determina il rating bancario dell’impresa.
Ma quindi, si dirà, le garanzie (siano esse garanzie reali, fideiussorie personali, fideiussorie dei consorzi fidi o, recentemente più diffuse, di Stato) quale ruolo hanno, in tutto questo? Andando oltre lo stereotipo del “senza garanzie non viene concesso credito” (in parte vero, ma per motivi dell’attuale bassa propensione al rischio delle banche, non di “norma” generale), va detto che una garanzia ha effetto sulla riduzione del potenziale danno in capo alla banca, derivante dal mancato (o ritardato) rimborso (totale o parziale) del credito, e non sulla riduzione del “rischio” che si avveri l’evento dannoso stesso, che resta nel lato del campo dell’impresa prenditrice di debito.
Ed è per questo che, anche in presenza di garanzie pubbliche, la banca è tenuta lo stesso a fare opportune valutazioni di meritevolezza o meno della concessione del credito, per non incorrere in ipotesi di “concessione abusiva”. E, conseguentemente, la gestione dei crediti così garantiti è meno elastica nelle fasi di transazioni legate alle procedure di crisi d’impresa.
E, per concludere, questo è anche il motivo per cui, in una corretta negoziazione con le banche, le garanzie dovrebbero essere utilizzate per ottenere un minor costo del finanziamento (generando, per queste, una riduzione degli accantonamenti derivanti dall’assorbimento del patrimonio di vigilanza) e non (solo) come condizione per ottenere il credito in sé.