Dalla spiaggia alla scrivania: gestire il post-vacation blues per non compromettere la produttività
di Claudio Garau
Il rientro dalle ferie, da molti, è vissuto come una sorta di rito collettivo. L’agenda che torna a riempirsi, le mail che si accavallano nella casella, le riunioni che riprendono quasi come se nulla fosse successo. Un brusco ritorno al “reale” dopo una parentesi sospesa, spesso idealizzata. Uno scuotimento improvviso dai tranquilli pomeriggi all’aria aperta, dai momenti di ritrovo, dai percorsi di viaggio e dalle passioni che, durante le vacanze, erano state finalmente rispolverate.
Accanto a questo rito, si ripresenta puntuale anche un fenomeno sottovalutato e quasi irriso nel linguaggio comune: il post-vacation blues, la sindrome da rientro che si manifesta con sintomi come stanchezza, malinconia, sbalzi d’umore, apatia o difficoltà di adattamento e concentrazione. Nel linguaggio comune, e nelle chiacchiere tra colleghi, spesso la si prende un po’ alla leggera o la si qualifica scherzosamente chiamandola “depressione da rientro” o “malinconia da lunedì”, quasi fosse una cosa frivola.
Ma così non è. Non è una fisima, bensì fisiologia. Non è un capriccio mentale, un’esagerazione senza fondamento o – peggio ancora – una lamentela da privilegiati, ma una reazione del tutto naturale del corpo e della mente al cambio di ritmo, alla sospensione delle abitudini quotidiane e al ritorno a stress e responsabilità. In altre parole, è un fenomeno reale, con basi psicologiche e biologiche, non una mera scusa per sentirsi tristi. E per giuristi, consulenti del lavoro, imprenditori e HR manager, il tema non è un dettaglio di costume ma una questione di produttività e cultura aziendale.
Secondo un sondaggio recentemente svolto dall’associazione Eurodap è emerso che quasi due persone su tre – al rientro dalle ferie – si sentono stanche al solo pensiero di ricominciare. Il centro ad alta specializzazione Humanitas Research Hospital chiarisce che i sintomi del post-vacation blues toccano sia la sfera mentale che quella fisica, e potrebbero essere correlati al funzionamento dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, la complessa architettura biologica che regola la risposta allo stress.
Accanto al brusco ritorno alla routine, il corpo non resta indifferente. Nei giorni di vacanza, mente e fisico hanno conosciuto ritmi più lenti, sonni profondi e pause reali dal continuo via vai di impegni.
Tornare al lavoro è allora come svegliare un sistema che dormiva: il citato asse ipotalamo-ipofisi-surrene si rimette in moto e va quasi in sovraccarico. Il meccanismo può essere “semplificato” come segue: l’ipotalamo lancia il segnale del cambiamento, l’ipofisi lo amplifica e le ghiandole surrenali producono cortisolo, l’ormone che ci mette in allerta. Ed è proprio questa risposta fisiologica a farci sentire stanchi, irritabili, distratti, a far tornare la malinconia come un’ombra sulle giornate che – all’approssimarsi della fine dell’estate – ci sembrano già troppo corte. Il post-vacation blues non è – perciò – un semplice oggetto di battuta tra colleghi, ma è l’organismo che reagisce – con il linguaggio che conosce meglio: quello dei nervi, dei muscoli e delle emozioni.
Sull’Almanacco della Scienza – il web magazine curato dall’Ufficio Stampa del Cnr – il neuroscienziato Antonio Cerasa ha affermato che lo stress lavorativo cronico, combinato all’improvviso ritorno alla routine quotidiana, peggiorano la sensazione di malessere e chi è più fragile è più esposto a rischi di ansia e depressione. Suggerendo l’utilità di programmare vacanze brevi ma frequenti – invece che un’unica pausa lunga – Cerasa ha inoltre citato uno studio, pubblicato da un gruppo di ricercatori dell’Università di Liegi sulla nota rivista scientifica Pnas, che mostra come le capacità attentive siano maggiori tra luglio e settembre, quando massima è la quantità di luce nell’ambiente. Si potrebbe perciò sfruttare maggiormente tale periodo per le attività lavorative.
Il dibattito è insomma ricco di spunti interessanti e contributi che stimolano una riflessione personale sul rapporto tra vita privata, lavoro e gestione dei momenti di “stacco”. Marco Iosa, ricercatore nel campo della neuroriabilitazione e docente presso la Sapienza, su indexmedical.it – piattaforma per le aziende del settore medico – ha spiegato l’importanza di svolgere un’attività fisica intensa e sociale, idealmente all’aperto, per contrastare il malessere post-rientro dalle ferie. Ma, a ben vedere, quanti ambienti di lavoro stimolano o agevolano una simile abitudine o cambio di attività?
Non solo. Andrea Chellini, fondatore della nuova metodologia scientifica denominata “embodimetria”, ha sviluppato tecniche corporee (come ad es. respirazione profonda) che, eseguite anche per pochi minuti al giorno, aiutano a regolare le emozioni e ristabilire l’equilibrio psico-fisico, superando più velocemente la sindrome da rientro. Tuttavia, un’altra domanda sorge spontanea e invita alla riflessione personale: in quanti contesti aziendali è legittimo – ed anzi, si direbbe con una punta di sarcasmo, apprezzato – anche solo prendersi cinque minuti di respiro consapevole, senza che venga percepito come tempo perso?
E qui il discorso si fa pungente: troppo spesso il ritorno dalle ferie viene gestito come una sorta di “reset forzato”. Tutto deve ripartire immediatamente, senza margini di decompressione. In materia, non stupirà che i contributi arrivino da tutto il mondo. Tessa West, docente presso la New York University, ha sottolineato l’importanza di pianificare i primi giorni di rientro come inevitabilmente faticosi. A parere di chi scrive, sarebbe opportuno che anche le imprese italiane assumessero questa prospettiva, introducendo “buffer organizzativi” e non pretendendo la prestazione piena al minuto uno del ritorno.
Non solo. Pubblicati sul Journal of Occupation Health, gli studi della ricercatrice Jessica de Bloom, attiva presso l’Università di Tampere, smontano un mito ricorrente: gli effetti benefici delle vacanze – miglior umore, incremento di energie, persino maggiore creatività – tendono a svanire in meno di una settimana dal rientro. In sintesi, il benessere guadagnato durante la vacanza cala presto una volta rientrati e dipende in gran parte dall’esperienza soggettiva di relax e controllo. Sembra quasi un paradosso: proprio durante le ferie, la stessa ricerca ha dimostrato un aumento della flessibilità cognitiva, cioè la capacità di generare idee nuove e affrontare i problemi da prospettive insolite.
Alla luce dei diversificati contributi che arrivano dal mondo della scienza, il post-vacation blues potrebbe definirsi – in estrema sintesi – come il sintomo di un equilibrio precario tra vita lavorativa e personale, più che un semplice effetto collaterale del viaggio. Il punto allora non è solo “fare vacanza”, ma come si rientra e soprattutto quale uso si fa dell’esperienza accumulata. Se la creatività svanisce alla prima riunione settimanale, non è colpa della vacanza, ma di un’organizzazione del lavoro incapace di valorizzare quella risorsa. O forse, a monte, c’è una situazione psicologica personale non molto positiva.
E la questione è anche culturale, perché il giurista o l’imprenditore che riduce il post-vacation blues a un capriccio individuale, compie un errore strategico. Le statistiche ci dicono che la sindrome da rientro è diffusa, transitoria ma potenzialmente molto costosa: abbassa la produttività, aumenta l’assenteismo, mina la qualità decisionale. In un contesto fortemente competitivo, ignorarla equivale a lasciare margini di inefficienza sul tavolo.
Al contrario, riconoscerla e predisporre opportuni strumenti organizzativi – come ad es. rientri graduali, spazi di flessibilità, politiche di benessere autentiche e non cosmetiche – diventa un vantaggio competitivo. Non è filantropia: è gestione efficiente del capitale umano.
Un datore di lavoro saggio deve considerare il fenomeno per quello che è realmente. Ironizzare sul collega “depresso post-vacanza” è un riflesso facile. Quasi una gag da film. Ma se medici, neuroscienziati e psicologi ci segnalano che il fenomeno è concreto, l’ironia lascia spazio alla responsabilità.
Ecco perché il rientro non dovrebbe essere il “teatro” del ritorno coatto a un equilibrio fragile, ma l’occasione per ripensare – e rivalutare – come organizzazioni e professionisti integrano il tempo del lavoro con quello del recupero. Forse la vera sfida non è “sopravvivere al rientro”, ma imparare a non sprecare il potenziale trasformativo che ogni vacanza, per quanto breve, porta con sé.