Dalla giurisprudenza consolidata al revirement: sulla cedolare secca pesa il monito del MEF
di Giacomo Monti
L’ordinanza interlocutoria n. 30016 del 13 novembre 2025 della Corte di Cassazione rappresenta un inatteso colpo di scena nella discussa vicenda della cedolare secca applicata alle locazioni a uso foresteria.
Dopo una serie di pronunce univoche (Cass., sent. nn. 12395/2024, 12076/2025 e 12079/2025), che avevano riconosciuto la piena compatibilità tra la disciplina della cedolare secca e i contratti stipulati con conduttori operanti in regime d’impresa, la Cassazione decide improvvisamente di rimettere la questione alle Sezioni Unite.
Un cambio di passo che appare tanto improvviso quanto difficilmente spiegabile sul piano strettamente tecnico. A destare più di un interrogativo è soprattutto il contesto in cui questo revirement si colloca.
Solo qualche tempo fa, nel question time del 25 settembre 2025, il Ministro Giorgetti aveva infatti manifestato apertamente l’auspicio che la Suprema Corte intervenisse “in senso restrittivo”, allineandosi alla posizione dell’Agenzia delle Entrate e superando l’orientamento, definito “eccessivamente estensivo”, maturato in sede giurisprudenziale.
Una dichiarazione politica dal chiaro intento: contenere l’impatto potenziale sulle entrate erariali. Come se la coerenza interpretativa fosse un lusso subordinabile alle ragioni di bilancio.
Ed è singolare che proprio dopo quell’intervento pubblico si registri una presa di distanza così marcata da parte della Cassazione rispetto ai propri precedenti pronunciamenti. L’ordinanza mette infatti in discussione due elementi che, fino ad oggi, erano stati tenuti fermi dei giudici di legittimità:
1. la rilevanza esclusiva della posizione del locatore, ai fini del comma 6 dell’articolo 3 del d.lgs. 23/2011;
2. la natura abitativa della locazione a uso foresteria, considerata del tutto compatibile con la disciplina della cedolare secca.
Sotto il primo profilo, l’ordinanza sembra volere introdurre un requisito soggettivo che il legislatore non ha mai previsto: la necessità, cioè, che anche il conduttore non agisca nell’esercizio dell’impresa. Una lettura che altera l’equilibrio del testo normativo e che si pone in aperto contrasto con le sentenze del 2024 e del 2025, nelle quali la Corte aveva chiarito che il divieto riguarda solo il locatore.
Ben più sorprendente, però, è la seconda affermazione: la Cassazione arriva infatti a sostenere che il contratto di foresteria sia un contratto atipico, “non riconducibile alla locazione abitativa”, poiché mancherebbe l’utilizzo diretto dell’immobile da parte del conduttore. La conclusione è spiazzante, non solo perché contrasta con decenni di prassi contrattuale - università, imprese ed enti stipulano regolarmente contratti di foresteria, sempre qualificati come locazioni abitative - ma anche perché ribalta un principio che la stessa Cassazione aveva recentemente riaffermato: ciò che rileva è la destinazione abitativa dell’immobile, non la coincidenza tra conduttore formale e soggetto che materialmente abiterà l’alloggio.
Con l’ordinanza n. 30016/2025, invece, il baricentro dell’interpretazione si sposta improvvisamente sul piano dell’utilizzo organizzativo dell’immobile da parte della conduttrice, con la conseguenza di escludere la natura abitativa del contratto e, dunque, la possibilità stessa di applicare la cedolare secca. Una soluzione che non solo rischia di creare un vuoto interpretativo, ma che pare introdurre, surrettiziamente, un limite agevolativo partendo da una qualificazione civilistica forzata e discutibile.
Nel fare ciò, la Cassazione richiama addirittura un principio espresso nel 2014 (sentenza n. 2964) in ambito di revocatoria fallimentare, quindi in un contesto del tutto estraneo alla finalità della norma prevista dal D.lgs. 23/2011.
È inevitabile, allora, chiedersi se questo inatteso revirement sia davvero frutto di una riflessione giuridica autonoma o se, viceversa, non abbia pesato il clima politico-istituzionale alimentato dalle dichiarazioni del Ministro e dalla persistente posizione dell’Agenzia delle Entrate. Il sospetto - legittimo, alla luce delle tempistiche - è che l’intervento delle Sezioni Unite sia stato sollecitato non per risolvere un contrasto giurisprudenziale, quanto per tentare di ribaltare un orientamento ormai consolidato, ritenuto troppo favorevole ai contribuenti e, magari, troppo oneroso per il bilancio pubblico.
Le Sezioni Unite avranno ora l’onere - e l’onore - di ristabilire un quadro interpretativo coerente, libero da pressioni esterne e rispettoso della lettera e della ratio della norma.
Se sceglieranno di confermare la linea inaugurata nel 2024, riaffermeranno un principio di legalità chiaro: le agevolazioni si applicano in base alla legge, e la legge non considera la posizione del conduttore.
Se, invece, aderiranno alla nuova impostazione restrittiva, sarà difficile evitare la sensazione che la giurisprudenza tributaria possa essere “orientata” più dal fabbisogno erariale che dal diritto.
Quale che sia l’esito, una cosa è già chiara: questa ordinanza non è una semplice parentesi tecnica, ma un passaggio istituzionale che segnerà, probabilmente per anni, il rapporto tra politica fiscale, Agenzia delle Entrate e giurisprudenza di legittimità. Ed è proprio per questo che, oggi più che mai, la coerenza della Corte e la sua indipendenza interpretativa appaiono cruciali.


