Crediti ricerca e sviluppo: perché la vera domanda non è “se”, ma “perché” aderire al riversamento
di Simona Baseggio e Barbara Marini
La possibilità, fino al 3 giugno 2025, di riversare in modo spontaneo i crediti d’imposta per investimenti in ricerca e sviluppo, disposta dal Provvedimento dell’Agenzia delle Entrate n. 224105/2025, si inserisce nel solco delle strategie deflattive già tracciate dal legislatore negli ultimi anni. Il meccanismo è noto: consente, in presenza di specifici presupposti, di regolarizzare l’utilizzo di crediti d’imposta considerati “a rischio”, senza incorrere in sanzioni, interessi o, soprattutto, responsabilità penali. Resta tuttavia inaccessibile in presenza di utilizzi fraudolenti, documentazione carente o atti di recupero divenuti definitivi alla data del 22 ottobre 2021.
Al di là dell’architettura tecnico-normativa, che ricalca quella già prevista dall’articolo 5 del DL n. 146/2021 e dalle sue successive modificazioni, la riapertura del termine apre uno spazio di valutazione che impone una riflessione meno automatica. Il contribuente non si trova davanti a un obbligo, bensì a un bivio: aderire alla procedura, assumendosene i costi, o resistere confidando nella fondatezza della propria posizione. È un’opzione che si presenta, a seconda dei casi, come una tutela, un’opportunità o una resa preventiva.
La forza attrattiva della procedura, d’altro canto, è evidente. La sua efficacia sul piano penale – con esclusione dell’applicazione dell’articolo 10-quater del Dlgs 74/2000 – rappresenta per molti contribuenti un incentivo sufficiente a soprassedere su eventuali contestazioni, anche quando le ragioni a favore dell’agevolazione appaiano tutt’altro che infondate. Il timore dell’alea interpretativa, o della difficoltà di dimostrare a posteriori il contenuto tecnico di attività svolte anche molti anni prima, spinge alla cautela.
Ciò che rende la scelta particolarmente delicata è la natura delle irregolarità sanabili: si tratta, nella maggior parte dei casi, non di condotte fraudolente, ma di incertezze interpretative, difetti documentali, errori di quantificazione, divergenze sul perimetro della nozione di “ricerca e sviluppo”. È la zona grigia del diritto tributario, dove l’inesattezza contabile o l’inadeguatezza della documentazione rischiano di essere interpretate, in sede accertativa, come segnali di inesistenza sostanziale del credito.
In questo contesto, aderire alla procedura può equivalere a rinunciare a una posizione giuridicamente sostenibile, solo perché percepita come vulnerabile sul piano probatorio. Non è un caso, infatti, che tra le condizioni ostative vi sia l’assenza di documentazione “idonea” a dimostrare il sostenimento delle spese ammissibili al credito d’imposta: una clausola che, se interpretata in modo rigoroso, rischia di equiparare un semplice difetto documentale a un comportamento scorretto del contribuente. Di contro, chi abbia strutturato con rigore il proprio fascicolo tecnico, ottenuto pareri qualificati, certificazioni indipendenti o validazioni esterne, dispone di strumenti adeguati per affrontare l’eventuale verifica, e forse anche per sostenerne l’esito in sede contenziosa.
Per i soggetti già coinvolti in un contenzioso non definitivo, la questione si complica ulteriormente. Aderire alla procedura, in questi casi, comporta l’obbligo di rinunciare alla lite in corso. Una rinuncia che può risultare particolarmente onerosa, specie quando la pretesa sia fondata su interpretazioni opinabili o quando l’impresa abbia investito, anche in termini reputazionali, nella difesa della propria posizione. La scelta, dunque, non è mai meramente economica, ma si lega alla strategia complessiva di compliance e alla struttura interna del rischio fiscale.
Il quadro non è privo di contraddizioni. L’adesione, pur configurandosi come volontaria, è spesso dettata da un’esigenza difensiva: il contribuente si “autodenuncia” per evitare che un domani – magari dopo un mutamento interpretativo – l’utilizzo del credito gli venga contestato come indebito, se non addirittura come penalmente rilevante. È un meccanismo che solleva, almeno in controluce, qualche dubbio di legittimità sistemica: da un lato, l’Amministrazione consegue un risultato senza onere probatorio; dall’altro, il contribuente è spinto a rinunciare, per mero timore sanzionatorio, ad un beneficio fondato su investimenti reali.
Alla luce di queste considerazioni, la riapertura del termine per il riversamento va accolta con realismo, ma anche con misura. Non è la soluzione per ogni incertezza, né la via maestra per regolare posizioni complesse. È uno strumento utile, ma selettivo. E come tale, richiede valutazioni ponderate, documentazione solida e, soprattutto, una visione chiara della propria esposizione fiscale.
In definitiva, il contribuente non deve chiedersi semplicemente se può aderire alla procedura, ma se ha senso farlo. Perché, in assenza di un vero errore o di un rischio concreto, la rinuncia preventiva può rivelarsi una scelta più costosa del contenzioso che si intende evitare.