CPB: la “destabilizzante” risposta dell’Agenzia delle entrate in caso di aumento del capitale sociale
di Simona Baseggio e Barbara Marini
In occasione di “Telefisco 2025”, le domande rivolte all’Agenzia delle Entrate sul concordato preventivo si sono concentrate principalmente sulle cause di cessazione e di decadenza.
Tra queste, registriamo un’interpretazione sempre più estensiva delle cause di cessazione (in realtà anche di esclusione ex articolo 11) previste dall’articolo 21, comma 1, lett. b-ter), del Dlgs 12 febbraio 2024, n. 13, ossia le ipotesi per cui «la società o l'ente risulta interessato da operazioni di fusione, scissione, conferimento…». In particolare, durante Telefisco 2025, è stato chiesto se l’ipotesi di conferimento di partecipazioni tra due SRL aderenti entrambe al CPB, ovvero di un aumento di capitale tramite conferimento in danaro, rientrasse in queste casistiche.
Sul punto, l’Agenzia ha precisato che «la norma non distingue tra impresa conferente o conferitaria, pertanto, l’operazione di conferimento di partecipazioni e/o di crediti tra società aderenti al CPB deve ritenersi causa di cessazione per entrambe le parti coinvolte. Alla stessa conclusione, si può pervenire nel caso dell’aumento di capitale tramite conferimento in danaro».
Tale interpretazione si inserisce in un orientamento che, in più occasioni, ha evidenziato un approccio estremamente letterale, e, ci sia consentito, anche difficilmente condivisibile, da parte dell’Amministrazione finanziaria.
Non si può trascurare, infatti, come in passato alcune posizioni interpretative abbiano paradossalmente avvantaggiato il contribuente sotto il profilo fiscale. Emblematico è il caso della FAQ n. 10 dell’8 ottobre 2024, nella quale l’Agenzia ha chiarito che, laddove l’articolo 11 del decreto CPB prevede l’esclusione per «la società o l'associazione di cui all'articolo 5 del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917 interessata da modifiche della compagine sociale», una ditta individuale “trasformata” nel corso del 2024 o 2025 in impresa familiare, non comporta la cessazione dal regime, nonostante vi sia evidentemente la variazione del numero di collaboratori familiari nel 2024 rispetto al 2023.
Secondo l’interpretazione dell’Agenzia, infatti, «atteso che l’impresa familiare, come chiarito con la risoluzione n. 176/E del 28 aprile 2008 e ribadito con la circolare n. 4/E del 18 febbraio 2022, “ha natura individuale e non collettiva (associativa)”, si ritiene che il riferimento della richiamata norma a “società o associazione” non permetta di estendere l’applicazione della causa di esclusione, ivi prevista, anche all’impresa familiare».
Tale interpretazione appare quantomeno discutibile, in quanto la “trasformazione” da ditta individuale a impresa familiare implica un mutamento sostanziale della soggettività fiscale dell’aderente al CPB. In presenza di un incremento dei collaboratori familiari, si sono verificati casi di rilevante convenienza fiscale al CPB per il contribuente, senza che sia riscontrabile una ratio interpretativa condivisibile.
Allo stesso modo, la recente affermazione dell’Amministrazione finanziaria, secondo cui un conferimento in denaro possa costituire causa di cessazione dal CPB, rappresenta una conclusione non condivisibile per diverse ragioni.
Innanzitutto, la risposta dell’Agenzia non risulta coerente con la ratio della causa di cessazione prevista dall’articolo 21 comma 1, lett. b-ter, vale a dire quella di «evitare modifiche sostanziali della soggettività di coloro che hanno aderito al CPB in quanto la proposta è stata riferita ad una realtà economica diversa da quella risultante in esito alle operazioni straordinarie»: il conferimento in denaro da parte di un socio, soprattutto se di esigua entità, non può certamente rappresentare una modifica sostanziale alla realtà economica di colui che ha aderito al concordato, al pari di un’operazione di fusione o scissione.
In secondo luogo, considerare causa di cessazione (nonché di esclusione) dal CPB l’aumento di capitale tramite conferimento di denaro, favorisce il ricorso, da parte di coloro che hanno aderito all’istituto, al capitale di terzi rispetto al capitale proprio: il socio anziché versare denaro a titolo di aumento di capitale, lo verserà a titolo di finanziamento, così da consentire alla partecipata di mantenere l’accordo con il fisco. Un effetto distorsivo, questo, certamente non voluto dal legislatore.
Da un altro punto di vista, la risposta dell’Agenzia si potrebbe prestare ad utilizzi strumentali per quei contribuenti che, trovandosi in una posizione svantaggiata rispetto alle previsioni iniziali del concordato, desiderino uscire dal regime. Infatti, l’ipotesi di un aumento di capitale potrebbe assumere rilevanza pratica al termine del 2025 per coloro che intendano sottrarsi agli obblighi derivanti dal reddito concordato.
Questo scenario richiama alla memoria il dibattito relativo all’articolo 22, comma 1, lettera b), riguardante la decadenza dal regime a seguito della presentazione di una dichiarazione integrativa con dati difformi rispetto a quelli alla base della proposta di concordato. La possibilità di un utilizzo strumentale della norma aveva indotto l’Agenzia delle Entrate, con la circolare n. 18/E del 17 settembre 2024, a introdurre un requisito di scostamento minimo del 30 per cento in caso di minor reddito o maggior valore della produzione, pur in assenza di una specifica previsione normativa, giustificando tale posizione in un’ottica di interpretazione sistematica dell’istituto.
Il legislatore era in realtà già intervenuto, nel correttivo in vigore dall’8 agosto 2024, con l’aggiunta del comma 3-bis all’articolo 22, stabilendo che, in caso di decadenza dal concordato, restano comunque dovute le imposte e i contributi calcolati sulla base del reddito e del valore della produzione concordati, se superiori a quelli effettivamente conseguiti. In questo modo, il rischio di un uso opportunistico della norma era stato neutralizzato dal legislatore stesso.
Diversamente, nell’ipotesi di conferimento in denaro, l’interpretazione fornita dall’Agenzia comporta una cessazione, e non una decadenza dal regime: ad ogni modo, si tratta di una presa di posizione davvero “estensiva”, che sarà interessante verificare se poi verrà davvero confermata in un documento di prassi ufficiale.