CPB e sanatoria: interviene la proroga per salvare il 2019
di Simona Baseggio e Barbara Marini
Con l’approvazione – oggi – da parte del Senato del decreto fiscale (DL 84/2025), si aggiunge un tassello significativo al mosaico normativo del “regime di ravvedimento” collegato al concordato preventivo biennale (CPB) 2025-2026. Un tassello che modifica, in senso estensivo, la configurazione temporale dei termini di decadenza e che, di fatto, restituisce al perimetro della sanatoria anche l’annualità 2019, fino a pochi giorni fa ritenuta irrimediabilmente fuori gioco.
La misura dispone che i termini di accertamento in scadenza al 31 dicembre 2025, per i soggetti che aderiranno al CPB entro il 30 settembre 2025, siano prorogati di un anno, sino al 31 dicembre 2026. L’intervento riguarda espressamente gli accertamenti relativi ai redditi d’impresa e di lavoro autonomo (articolo 39 del Dpr 600/73) e all’IVA (articolo 54, comma 2, secondo periodo, Dpr 633/72).
Come evidenziato già nell'articolo "Ravvedimento a scoppio ritardato" pubblicato su queste stesse pagine, la peculiarità della nuova sanatoria risiede proprio nella sua finestra operativa posticipata: solo tra il 1° gennaio e il 15 marzo 2026 sarà possibile perfezionare il ravvedimento speciale, mediante versamento dell’imposta sostitutiva e accesso al regime protettivo. La scelta di far decorrere l’operatività della sanatoria unicamente dai versamenti effettuabili nel 2026 risponde a una precisa ratio: evitare che la finestra sanante potesse sterilizzare i controlli già avviati nel corso del 2025, in un’ottica di salvaguardia dell’azione accertativa dell’Amministrazione finanziaria. Una tempistica che, tuttavia, rischiava di vanificare l’accesso alla sanatoria per le annualità i cui termini di accertamento si sarebbero chiusi proprio il 31 dicembre 2025, come il 2019.
La misura, in questo senso, risolve una criticità strutturale: senza la proroga dei termini, l’architettura del ravvedimento rischiava di perdere una parte rilevante del suo potenziale applicativo. In questo modo si è rimessa in pista l’opportunità di ravvedere il 2019.
Quello che emerge, in definitiva, è l’ennesima conferma di una tendenza già osservata e analizzata su queste pagine in occasione della precedente tornata di proroghe: un diritto tributario che, nel nome dell’esigenza di gettito, finisce per riscrivere retroattivamente i confini del tempo giuridico, alterando la fisiologia della certezza e della stabilità.
Avevamo già scritto su queste pagine come le proroghe dei termini di decadenza operate dal legislatore tributario negli ultimi anni abbiano dato luogo a una sorta di diritto eccezionale permanente, in cui la regola smette di essere tale e si fa costantemente derogabile. L’emendamento ora approvato ne rappresenta l’ulteriore tassello, coerente nella logica, ma non per questo meno problematico sul piano sistemico.
Non è solo una questione di tecnica normativa: l’uso reiterato della proroga come strumento ordinario di governo fiscale alimenta, tra i contribuenti, un senso di instabilità e di diffidenza. Se anche l’anno 2019, che al 31 dicembre 2025 avrebbe dovuto ritenersi ormai definito, può essere nuovamente esposto all’attività di accertamento in virtù di una futura (e subordinata) adesione al CPB, allora il principio stesso di decadenza risulta svuotato di significato.
Va peraltro ricordato che la proroga al 2026 è solo il primo snodo. Per effetto della disciplina del ravvedimento speciale, le annualità oggetto di regolarizzazione vedranno un’ulteriore estensione del termine di accertamento al 31 dicembre 2028. Con buona pace del principio di definitività degli obblighi tributari.
In conclusione, la norma interviene con tempismo e razionalità tecnica per rendere applicabile il ravvedimento speciale anche al 2019, salvaguardando l’efficacia dello strumento. Ma è lecito domandarsi fino a che punto possa spingersi il legislatore nel piegare il tempo alla funzione fiscale.