All’inizio è un gioco. Chiediamo all’AI di descriverci, di scrivere la nostra biografia, le parliamo del nostro lavoro, immaginando come ci vedono gli altri. Vogliamo sapere se quella intelligenza artificiale ci capisce, se ci racconta bene, se restituisce un’immagine più affascinante o più comune di quella che ci siamo costruiti.
La curiosità è tanta, lo ammetto, ma non mi si addice. Però i pensieri scorrono da soli e voglio provare, vediamo cosa viene fuori. Perché un tempo digitavamo il nostro nome su Google – e da formatrice in ambito di risorse umane l’ho consigliato sempre a chi era alla ricerca attiva di un lavoro –, perché fare egosurfing aiuta a vedere racchiuse in una pagina online tutte le informazioni che su di noi circolano sul web (monitoraggio non di poco conto, soprattutto per chi lavora online).
Ora, dal semplice googlare il proprio nome e cognome siamo arrivati invece all’AI mirror, il riflesso generato da un algoritmo. «Sono Natalia Piemontese, cosa pensi di me?»: lo scenario sembra essere lo stesso ma non lo è affatto. A Google basta solo un nome e cognome per restituire “semplicemente” risultati, link, contenuti già esistenti. ChatGPT, invece, costruisce una narrazione. Non mostra ma risponde, anzi si spinge oltre e interpreta le informazioni che trova, cercando di cucirle addosso a noi, per un’immagine online fatta su misura.
Ovviamente sappiamo bene (vero?) che l’AI non ha un’opinione, non esprime il suo parere. Quello “specchio” non riflette noi ma i dati su cui è stato addestrato. Ogni risposta è un collage di parole plausibili, la risposta non parla realmente di chi siamo, ma di ciò che il modello crede che una persona come noi potrebbe essere, in base a migliaia di testi e profili simili. “Se hai scelto questi studi, vuol dire che…” o “Se hai vissuto all’estero, significa che…” e quindi daresti il meglio di te in un contesto che… ecc. ecc.
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