Corte EDU sulle verifiche, l’Italia è meno peggio di quel che appare
di Alessandro Borgoglio
La questione posta ai giudici di Strasburgo (sentenza della Corte EDU del 6 febbraio 2025 - domande 36617/18 e 12 altre) da taluni contribuenti italiani, oggetto di accessi, ispezioni e verifiche fiscali presso i locali di attività delle rispettive imprese, da parte dell’Agenzia delle Entrate e della Guardia di Finanza, è se la normativa italiana sugli accessi in loco e sulle verifiche fiscali (al di fuori dei procedimenti penali) sia compatibile con l’articolo 8 della CEDU, secondo cui «Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui». A differenza dell’articolo 14 Costituzione, l’articolo 8 della CEDU comprende nella nozione di domicilio anche i locali di attività imprenditoriale o professionale del contribuente.
Dalle 45 pagine del testo ufficiale (in inglese) della decisione emerge che l’Italia ha violato il predetto articolo 8 della CEDU, ma gran parte delle motivazioni addotte appaiono invero già superate, come (in sintesi) le due seguenti.
a) Non esistono delle disposizioni normative e/o regolamentari specifiche che stabiliscano le circostanze e le condizioni in cui all’Amministrazione finanziaria sia consentito accedere ai locali e svolgere verifiche in loco e controlli fiscali su locali utilizzati per attività commerciali e professionali, sicché, in assenza di tali disposizioni, il quadro giuridico interno concede al Fisco una «discrezionalità illimitata» per espletare tali accessi e verifiche presso aziende e studi; inoltre, è stato contestato che l’autorizzazione all’accesso rilasciata dal Dirigente dell’Agenzia delle entrate o dal Comandante della Guardia di finanza non debba essere motivata, per come formulato l’articolo 52 del Dpr n. 633/1972.
Invero, il comma 1 dell’articolo 12 della Legge 212/2000 stabilisce che «Tutti gli accessi, ispezioni e verifiche fiscali nei locali destinati all’esercizio di attività commerciali, industriali, agricole, artistiche o professionali sono effettuati sulla base di esigenze effettive di indagine e controllo sul luogo. Essi si svolgono, salvo casi eccezionali e urgenti adeguatamente documentati, durante l’orario ordinario di esercizio delle attività e con modalità tali da arrecare la minore turbativa possibile». Tale norma, quindi, già prevede criteri e condizioni affinché il Fisco possa espletare l’accesso in loco.
La Guardia di finanza, inoltre, ha puntualizzato quali siano le esigenze effettive di indagine sul luogo, rinvenendole nella necessità di procedere a ricerche di documentazione contabile o extracontabile, compresa quella accessibile per il tramite di apparecchiature informatiche, e nell’effettuazione di rilevamenti materiali (circolare 1/2018 Guardia di Finanza, non menzionata della Corte EDU). Inoltre, alcune Direzioni Regionali delle Entrate hanno predisposto una “Carta delle verifiche”.
L’autorizzazione all’accesso sia delle Entrate sia della Guardia di finanza, quindi, contiene già la motivazione in ordine alla necessità dell’accesso e la puntuale indicazione dei motivi per cui i verificatori devono procedere in tal senso.
b) Il quadro giuridico interno non consente un effettivo controllo giurisdizionale dell’accesso e della sua autorizzazione e, in particolare, un controllo della conformità dei criteri invocati per l’accesso alle restrizioni riguardanti le condizioni che lo giustificano.
Anche in questo caso, la Corte sembra ignorare (non ne fa menzione in 45 pagine) che proprio con la recente riforma dello Statuto è stato introdotto l’articolo 7-quinquies della Legge 212/2000, a mente del quale «Non sono utilizzabili ai fini dell’accertamento amministrativo o giudiziale del tributo gli elementi di prova acquisiti oltre i termini di cui all’articolo 12, comma 5, o in violazione di legge».
La locuzione utilizzata è così ampia da ricomprendere una casistica davvero variegata, proprio a partire dalla violazione dei termini di durata delle verifiche fiscali e delle altre prescrizioni dell’articolo 12 della Legge 212/2000, tra cui: la sussistenza di esigenze effettive di indagine in loco; lo svolgimento delle attività ispettive durante l’ordinario orario di esercizio; l’informativa al contribuente sulle ragioni che hanno determinato l’avvio del controllo e la possibilità di farsi assistere da un professionista abilitato.
Quindi, esiste già una disposizione normativa interna che consente il controllo giurisdizionale sull’autorizzazione e sulle modalità di accesso in loco.
Le motivazioni della Corte EDU che invece sono ampiamente condivisibili –e che costituiscono, a parere di chi scrive, il vero focus della pronuncia – attengono al fatto che sebbene, in materia fiscale, i controlli e le ispezioni possano estendersi oltre una mera ispezione dei conti obbligatori, non esisterebbero garanzie per evitare l’accesso indiscriminato o almeno la conservazione e l’uso di documenti e voci non correlati allo scopo della misura in questione.
Su questo aspetto la Corte ha ragione, perché non esiste una norma che precluda ai verificatori l’accesso a dati e informazioni che esulino dall’ambito del controllo fiscale: se in sede di accesso può essere acquisito dal Fisco tutto ciò che è in azienda, quasi come se esistesse una presunzione assoluta di afferenza dei documenti cartacei e informatici ivi presenti all’attività d’impresa, ben potrebbero essere acquisiti anche documenti che nulla hanno a che fare con la fiscalità, come per esempio corrispondenza personale temporaneamente presente in sede, mail personali di dipendenti e dell’imprenditore che afferiscono più a questioni di cuore che di fisco, eccetera.
Sarebbe allora necessaria una norma che consentisse ai verificatori di esaminare tutto il materiale presente in loco, ma di acquisire soltanto quello rientrante nel perimetro del controllo fiscale per come indicato nell’autorizzazione all’accesso o alla verifica.
L’altra motivazione, ancor più condivisibile, “centrata” dalla Corte EDU, attiene al fatto che i rimedi giurisdizionali sono esperibili soltanto una volta che l’atto impositivo sia stato emesso e quindi il procedimento fiscale si sia ormai concluso, il che potrebbe avvenire anche a distanza di anni rispetto all’accesso in loco; mancherebbero cioè nella normativa interna dei “rimedi intermedi” affinché, se un’autorità ispettiva proceda in violazione di legge, sia possibile ricorrere a un organo giurisdizionale per ottenere un intervento tempestivo (come la sospensione della verifica), ciò che – come correttamente affermato dalla Corte EDU – non è possibile con l’intervento del Garante di cui all’articolo 13 della Legge 212/2000, il quale può soltanto formulare semplici raccomandazioni – non vincolanti – all’Amministrazione finanziaria.
La soluzione, in questo caso, sarebbe già “pronta all’uso”: basterebbe, infatti, dotare dei poteri necessari il Garante del contribuente – che invece dagli ultimi provvedimenti legislativi è stato sempre più depotenziato (come dalla recente Riforma Fiscale di cui al Dlgs 219/2023) – consentendogli di intervenire tempestivamente laddove il contribuente riscontrasse una violazione delle norme in materia di accesso e verifiche, mediante adozione di decisioni vincolanti per l’Amministrazione finanziaria (Agenzia delle Entrate, Guardia di Finanza, ADM, eccetera).
In conclusione, quella che con clamore mediatico e per i più è passata come una sonora bocciatura della legislazione italiana in materia, ad avviso di chi scrive, invece, è in gran parte una convalida di disposizioni già presenti nell’ordinamento interno – come affermato nella pronuncia («la Corte ritiene che la maggior parte delle misure necessarie siano già previste nella legislazione interna, in particolare negli articoli 12 e 13 della legge n. 212/2000») –, al più da attuare meglio come suggerito dalla Corte «mediante pertinenti direttive di prassi amministrativa»; per altra parte è un richiamo all’introduzione di poche altre norme mancanti, come quelle per il controllo giurisdizionale intermedio. La non particolare gravità della lacuna normativa, del resto, si evince anche dalla liquidazione del danno morale, pari a 3.200 euro, che, in assenza di condanna alle spese (neppure richieste, invero), pare più una sorta di mini-ristoro per tali spese (certamente più alte) piuttosto che un vero e proprio risarcimento del danno.