Corte Costituzionale: stop alla retroattività del nuovo regime probatorio nel contenzioso tributario
di Roberto Bianchi e Luca Procopio
Con la sentenza n. 36 del 27 marzo 2025, la Corte Costituzionale è intervenuta su un punto cruciale della riforma fiscale, dichiarando l’illegittimità della previsione dell’articolo 4 del DLgs 220/2023 nella parte in cui prevedeva l’applicazione immediata del nuovo regime probatorio ai giudizi di appello notificati dal 5 gennaio 2024, a prescindere dallo stato in cui versavano i relativi procedimenti.
Una decisione che incide in modo diretto sul contenzioso tributario in corso, poiché riconosce una lesione al diritto di difesa delle parti – principio cardine sancito dall’articolo 24 della Costituzione – a causa di un’applicazione retroattiva della disciplina processuale.
Il nuovo regime probatorio introdotto dal DLgs. 220/2023
La riforma ha profondamente modificato l’articolo 58 del DLgs 546/1992, introducendo una disciplina molto più rigorosa in materia di ammissione di nuove prove in appello:
Il nuovo comma 1 vieta il deposito di nuovi documenti o mezzi di prova, salvo che il collegio li ritenga indispensabili o che la parte dimostri di non aver potuto produrli nel primo grado per cause a sé non imputabili.
Il comma 2 consente la proposizione di motivi aggiunti esclusivamente in presenza di documenti non conosciuti in primo grado che evidenzino vizi degli atti impugnati.
Il comma 3 introduce un divieto assoluto di deposito, nel giudizio d’appello, di deleghe, procure e altri atti inerenti alla legittimità della sottoscrizione o della notificazione, relegandone la produzione alla fase di primo grado.
Secondo l’articolo 4, comma 2, del DLgs 220/2023, tali disposizioni avrebbero dovuto applicarsi a tutti i giudizi instaurati a partire dal 5 gennaio 2024, senza distinguere tra procedimenti iniziati ex novo e fasi d’appello di cause già pendenti.
La pronuncia della Corte Costituzionale
La Consulta ha ricondotto la questione al principio, immanente nell’ordinamento costituzionale, della tutela dell’affidamento e della certezza del diritto.
Nei procedimenti di primo grado pendenti alla data del 5 gennaio 2024, le parti avevano maturato – alla luce della disciplina previgente – legittime aspettative circa la possibilità di introdurre nuove prove in appello. In base alla consolidata giurisprudenza (Cass. 6772/2023; Cass. 6888/2016), infatti, il sistema tributario consentiva alle parti di depositare documenti in secondo grado anche se già disponibili anteriormente, in linea con quanto già in passato statuito dalla stessa Consulta (Corte Cost. 199/2017).
L’applicazione immediata della nuova disciplina anche ai procedimenti già pendenti, avrebbe inciso su situazioni processuali consolidate, senza che le parti potessero in alcun modo adeguarsi preventivamente. In particolare, nei giudizi di primo grado pendenti alla data di entrata in vigore della riforma, e nei quali era già spirato il termine per il deposito documentale, le parti non avrebbero avuto strumenti per neutralizzare l’effetto pregiudizievole della novella.
La Corte ha ribadito che, sebbene formalmente proiettata nel futuro, una disciplina che incide retroattivamente su situazioni già formatesi si pone in contrasto con i principi costituzionali di ragionevolezza e di tutela dell’affidamento.
Gli effetti pratici della sentenza
La declaratoria di incostituzionalità dell’articolo 4, comma 2, del DLgs 220/2023 determina l’inapplicabilità dei nuovi divieti probatori ai giudizi di primo grado instaurati prima del 5 gennaio 2024. In tali procedimenti resta pertanto consentita la produzione di nuovi documenti anche nella fase d’appello.
Concretamente questo significa che nei giudizi pendenti, anche se l’appello è stato notificato successivamente al 4 gennaio, il regime probatorio da applicare resta quello antecedente alla riforma.
Ne deriva che le parti potranno continuare a produrre nuovi documenti in appello secondo le regole precedenti, senza incorrere nelle nuove limitazioni.
Qualora, nel frattempo, il giudice d’appello avesse rigettato la produzione di prove facendo applicazione della normativa riformata, la parte interessata potrà ottenere l’annullamento della sentenza in sede di legittimità, con rinvio al giudice di merito affinché riesamini la questione alla luce delle regole previgenti.
Considerazioni conclusive
La sentenza n. 36/2025 costituisce un richiamo importante alla centralità del giusto processo e alla necessità di garantire condizioni di effettiva parità tra le parti.
In un sistema tributario già segnato da complessità procedurali e da un contenzioso stratificato, il richiamo della Consulta al principio secondo cui “Il principio della tutela dell'affidamento come «ricaduta e declinazione "soggettiva"» della certezza del diritto, la quale, a propria volta, integra un «elemento fondamentale e indispensabile dello Stato di diritto», è connaturato sia all'ordinamento nazionale, sia al sistema giuridico sovranazionale”, conferma l’esigenza di una disciplina processuale pienamente rispettosa delle garanzie costituzionali.
La pronuncia offre dunque una lezione preziosa: in materia di regole processuali, il legislatore deve maneggiare con particolare cautela ogni intervento normativo, specie laddove questo rischi di incidere su posizioni giuridiche già maturate, senza un’adeguata salvaguardia dei diritti delle parti.