Composizione negoziata 2.0: pronto soccorso del risanamento o pre-fallimento gentile?
di Gianluca Iannetti
Nel 2021 ci avevano detto che sarebbe stata il volto umano del nuovo diritto della crisi. Oggi la composizione negoziata è il corridoio centrale dove passa quasi tutto: crisi, insolvenza, fisco, banche, tribunali. La domanda è semplice e scomoda: abbiamo davvero capito che cosa vogliamo farne?
Quando è arrivata sulla scena, è stata presentata come uno strumento volontario, riservato, per l’imprenditore che percepisce per tempo lo squilibrio e decide di non aspettare che la crisi esploda in tribunale. Una stanza protetta dove sedersi con creditori e consulenti, con un esperto indipendente al fianco, per provare a salvare l’azienda prima che sia tardi.
Poi è arrivato il terzo giro di riforma.
Il decreto legislativo 13 settembre 2024, n. 136 – il famoso correttivo-ter – è entrato in vigore il 28 settembre 2024. Da quel momento la composizione negoziata è entrata ufficialmente nella sua fase 2.0.
L’articolo 12 del Codice della crisi oggi dice espressamente che può accedere alla composizione l’imprenditore che si trova in stato di crisi o di insolvenza, oltre che in condizioni di squilibrio che rendano probabile la crisi o l’insolvenza. Prima il testo parlava solo di squilibri “che rendono probabile” crisi o insolvenza: l’insolvenza era evocata come rischio futuro, non come stato di fatto al momento dell’istanza. La prassi si era divisa; qualcuno apriva comunque la porta agli insolventi, altri no.
Il correttivo-ter non ha scoperto l’insolvenza, ma ha scelto di metterla nero su bianco. È una scelta di campo: la composizione non è più percepita solo come strumento di pre-crisi, ma come luogo in cui può finire anche chi è già caduto nella zona dell’insolvenza, a patto che esista ancora una prospettiva ragionevolmente perseguibile di risanamento.
Ed è qui che iniziano, insieme, opportunità e problemi.
Dal “prima che sia troppo tardi” al “anche quando è già tardi”
La narrazione originaria era rassicurante: composizione negoziata come corsia di emergenza per imprese che stanno scivolando ma non sono ancora a terra. L’imprenditore si collega alla piattaforma delle Camere di commercio, chiede la nomina di un esperto, carica bilanci e business plan, si presenta alle banche e ai fornitori con un progetto di continuità.
Con il correttivo-ter il frame cambia: non si parla più solo di squilibri potenziali, ma si dice che la composizione può essere attivata anche in crisi e in insolvenza. La porta è spalancata a chi, fino a ieri, sarebbe andato direttamente verso un concordato o una liquidazione giudiziale. Dentro lo stesso contenitore oggi convivono imprese ancora recuperabili e imprese con insolvenza conclamata.
Se lo strumento è usato bene, questa elasticità consente di governare in un unico “luogo” tutto lo spettro della difficoltà: dalla pre-allerta alla soglia della liquidazione. Se è usato male, rischia di trasformarsi in un limbo in cui non si capisce più chi ha davvero qualcosa da salvare e chi, semplicemente, prende tempo.
Per capire cosa significa, basta guardare una storia-tipo che più o meno tutti abbiamo già visto.
Gamma Srl: un caso che suona fin troppo familiare
Immaginiamo un nostro cliente di studio: chiamiamolo Gamma Srl. È un nome di finzione, ma la trama è nota.
Gamma fa allestimenti fieristici. Per anni vive bene di fiere, eventi aziendali, congressi. Poi arrivano shock esterni, un paio di commesse importanti saltano, i costi fissi non si comprimono alla stessa velocità dei ricavi. Il fatturato scende, i margini si assottigliano, le scadenze fiscali e contributive iniziano a essere pagate “quando si può”.
Per un po’ l’imprenditore tiene duro: chiede un prestito garantito, consuma linee di credito, sposta risorse da altre società del gruppo, trattiene i fornitori con promesse e piani di rientro. Ma alla fine la fotografia è semplice: non riesce più a far fronte in modo regolare alle obbligazioni; i debiti fiscali e previdenziali si stratificano; le banche, più che finanziare, chiedono rientri; i fornitori iniziano a bussare in tribunale.
Dal punto di vista del Codice non siamo più nello scenario della “probabile crisi”: siamo nella definizione piena di insolvenza, intesa come incapacità non transitoria di soddisfare regolarmente le obbligazioni. È “strutturale” perché non dipende solo da un singolo evento, ma da un modello economico che, così com’è, non regge più.
Quando arriva il primo ricorso per liquidazione giudiziale, qualcuno propone la composizione negoziata. Gamma presenta istanza, carica la documentazione, viene nominato l’esperto, chiede misure protettive. E qui inizia la seconda parte del film: la storia che si decide di raccontare sulla continuità.
Le “continuità creative”: quando il piano è più storytelling che risanamento
Nel progetto di risanamento di Gamma troviamo un copione familiare: un affitto del marchio a una newco che dovrebbe organizzare eventi futuri, con royalties collegate agli utili di manifestazioni che nessuno ha ancora programmato; una partnership “esclusiva” con un operatore del settore che, nella realtà, è un contatto informale e una mail di intenti; una linea di “format digitali” che promette di sostituire gli eventi fisici, ma non ha ancora un euro di storico.
Presi singolarmente, questi elementi non sono vietati. Possono persino essere parte di un vero progetto di trasformazione. Il problema nasce quando l’intera “prospettiva di risanamento” viene caricata sulle spalle di flussi che, a guardarli da vicino, sono poco più che desideri.
Qui passa il confine tra implausibilità economica e illegittimità dell’accesso. Il Codice chiede che il risanamento sia ragionevolmente perseguibile: se il piano si regge su ricavi immaginari, questo presupposto semplicemente non c’è. Ma chi lo dice? E, soprattutto, come lo scopre?
È il punto in cui la retorica del business plan deve incrociare la due diligence dell’esperto. Non gli si chiede solo di leggere tabelle e grafici: gli si chiede di verificare se dietro quei numeri ci sono fatti. Ci sono contratti di partnership realmente sottoscritti, o solo promesse verbali? Le royalty sull’affitto del marchio sono coerenti con i margini storici del settore o sono costruite al contrario, partendo dal debito da coprire? I “nuovi format digitali” sono stati almeno testati su un campione reale, o sono soltanto una voce di Excel?
Se questi elementi mancano, è dovere dell’esperto segnalarlo, non ometterlo nella speranza che i numeri migliorino da soli. È in questo passaggio che la continuità creativa diventa pericolosa: non è più soltanto ottimismo imprenditoriale, ma un modo per tirare dentro alla CNC un’impresa che il Codice, se lo si guarda in faccia, non voleva dentro.
L’esperto al centro: facilitare, controllare, fermare
Il Codice disegna l’esperto come figura terza e indipendente, chiamata a tenere insieme tre funzioni: facilitare il dialogo tra impresa e creditori; vigilare sugli atti compiuti durante la procedura; dire, alla fine, se la prospettiva di risanamento c’è davvero.
Dopo il correttivo-ter, i suoi pareri pesano sempre di più. Le misure protettive, le autorizzazioni a determinati atti, gli sbocchi verso concordati o altri strumenti passano spesso dalla lettura che il tribunale dà delle sue relazioni. In pratica, l’esperto è un po’ mediatore, un po’ guardiano, un po’ quasi-commissario.
La domanda chiave è: che cosa succede quando l’esperto scrive nero su bianco che la prospettiva di risanamento non è ragionevolmente perseguibile?
Nel Codice non c’è un “clic” automatico che chiude la procedura al deposito di una relazione negativa, ma quella relazione è il fondamento naturale perché il tribunale – su impulso dell’esperto, su richiesta dell’imprenditore o dei creditori – disponga la chiusura della composizione con un provvedimento che fa cessare le misure protettive e riporta l’impresa nel perimetro “normale”, dove ciascuno può attivare gli strumenti successivi: concordato, accordo di ristrutturazione, liquidazione giudiziale.
La logica di sistema è limpida: se la prospettiva di risanamento non c’è, la composizione perde la sua ragion d’essere. Se una relazione negativa non porta ad alcuna conseguenza, l’esperto si riduce a cronista. Se invece diventa il momento in cui si riconosce che la CNC è arrivata al capolinea e va chiusa, il suo ruolo torna ad avere un peso reale.
Il Fisco in stanza, ma il cram-down resta fuori
Il correttivo-ter ha messo mano anche al fronte più sensibile: quello tributario.
Una delle critiche storiche era che ci si sedeva al tavolo con tutti, tranne che con il vero grande creditore: il Fisco. La riforma ha provato a cambiare l’ordine delle cose. Oggi, dentro la composizione negoziata, è possibile formulare proposte di accordo con i creditori pubblici, anche su riduzione e dilazione dei debiti. Se il Fisco aderisce, l’accordo viene portato al giudice, che lo rende efficace con un decreto.
È una novità importante, perché porta il tema tributario dentro la regia unitaria della composizione, non lo lascia come coda a margine delle banche.
Ma c’è un equivoco da evitare: la composizione negoziata non è il luogo del cram-down fiscale. Se l’Erario non aderisce alla proposta formulata in CNC, il giudice non può imporgliela in quella sede. La possibilità di “crammare” il Fisco nasce in strumenti diversi – concordato preventivo, accordo di ristrutturazione soggetto a omologazione – e obbedisce a regole precise: test di convenienza rispetto alla liquidazione, maggioranze, classi.
In altre parole: nella composizione si prova la via dell’accordo volontario anche con i creditori pubblici; se l’accordo non arriva, ma l’impresa ha ancora un minimo di fiato, ci si può spostare su un terreno dove il cram-down è previsto. Usare la CNC come scorciatoia per ottenere risultati che, per legge, richiedono un concordato, è un’illusione pericolosa.
“Non è per tutti e non è per sempre”: da slogan a criterio operativo
Dire che la composizione negoziata non è “per tutti e per sempre” è facile. Più difficile è tradurlo in scelte concrete.
Un primo passaggio riguarda l’ingresso. Non esiste oggi una norma che imponga alle Camere di commercio e agli esperti una valutazione qualitativa approfondita prima di pubblicare l’istanza e attivare le misure protettive; esiste però uno spazio di prassi. Una linea di buon senso potrebbe essere questa: quando un’impresa si presenta con debiti tributari o previdenziali arretrati da anni, bilanci non aggiornati o situazioni già oggetto di istanze di liquidazione, l’esperto dovrebbe mettere nero su bianco, fin dall’inizio, se vede davvero una strada di risanamento o se siamo già fuori tempo massimo. Non è un filtro di legalità, è un filtro di realtà.
Un secondo passaggio è il “semaforo rosso” a metà percorso. Nessuna norma automatica, ma una regola di comportamento: quando una relazione dell’esperto dice che il risanamento non è ragionevolmente perseguibile, quella relazione dovrebbe essere il grilletto per la chiusura della composizione. Un provvedimento del giudice che prende atto della valutazione tecnica, fa cessare le protezioni, restituisce credito e impresa alla fisiologia (o al contenzioso) e spinge a usare altri strumenti, se ce ne sono. Continuare la CNC “per vedere se qualcosa cambia”, dopo un giudizio negativo, vuol dire snaturarla.
Il terzo punto riguarda le premialità e il rischio di moral hazard. Una parte della dottrina ha letto la tempestiva attivazione degli strumenti di composizione – CNC compresa – come elemento attenuante nella valutazione delle responsabilità degli amministratori: chi ha assetti adeguati, intercetta la crisi e prova a gestirla, dovrebbe avere un trattamento diverso rispetto a chi finge di non vedere. Il problema è che, se la composizione diventa accessibile (e di fatto utilizzabile) anche dopo anni di insolvenza sommersa, il confine tra “tempestività” e “dilazione maliziosa” si annebbia. Se le stesse etichette di virtuosità si attaccano a chi entra presto e a chi arriva ultimo, il valore premiale si svuota.
E adesso? La direzione che stiamo prendendo
Sulla carta, il correttivo-ter ridisegna un sistema elegante: composizione negoziata come strumento principe, liquidazione giudiziale come esito residuale, Fisco al tavolo, esperto forte, banche responsabilizzate. È il film che vorremmo vedere.
Nella pratica di questi primi mesi, il quadro è più sfumato. Si vedono prassi virtuose, in cui la CNC è usata per ristrutturazioni serie, con piani credibili, accordi veri e transizioni ordinate verso strumenti giudiziali solo quando serve. Ma si vedono anche molti casi in cui la composizione è percepita come un modo per sterilizzare azioni esecutive e liquidazioni imminenti, con piani di continuità scritti più per “andare in procedura” che per andare sul mercato.
Siamo, insomma, in mezzo al guado. Non siamo ancora condannati al pre-fallimento gentile, ma gli incentivi non sono neutri: quando uno strumento offre protezioni forti, margini interpretativi ampi e pochi costi immediati, è naturale che venga usato anche da chi arriva tardi. E se l’esperto e il giudice non mettono paletti chiari, la deriva è quasi automatica.
La scelta, in fondo, è tutta qui. Possiamo fare della composizione negoziata il pronto soccorso del risanamento, dove chi ha una chance viene curato e chi non ce l’ha più viene accompagnato rapidamente verso una liquidazione ordinata, senza ipocrisie. Oppure possiamo accettare che diventi un corridoio di attesa verso l’inevitabile, in cui nessuno si assume fino in fondo la responsabilità di dire che quella prospettiva di risanamento, semplicemente, non c’è.
Il testo del decreto, da solo, non decide. Lo decideranno gli imprenditori che sceglieranno quando bussare, gli esperti che scriveranno se il piano è vero o di carta, i giudici che avranno il coraggio – o meno – di chiudere le composizioni quando è il momento. Ed è lì che si vedrà se stiamo costruendo un diritto della crisi che aiuta le imprese a cambiare pelle, o un sistema che le accompagna lentamente all’uscita, senza avere il coraggio di dirglielo.

