Commercialisti come panda: l’estinzione silenziosa della specie. Ma è proprio inevitabile?
di Massimo Pezzini
Avete presente il panda? Sì. Il panda. Pacifico, raro. Minacciato.
Ecco, oggi i commercialisti italiani, probabilmente — nell’immaginario collettivo — sono un po’ così: vivono in cattività tra circolari ministeriali e proroghe improvvise, scorrazzano tra praterie di F24 e sopravvivono grazie a diete multivitaminiche intervallate da stress e da frasi come “Dottore, a me le tasse servono per ieri perché poi vado a Formentera e lì non c’è campo per l’home banking”. Ah.
Forse sono proprio questi ultimi soggetti ad averli fatti arretrare, facendo loro riporre sempre meno speranza nel buon imprenditore. O forse no.
Sta di fatto che un tempo erano ovunque: come le discoteche, i preti o i negozi di dischi. Poi è come se avessero avuto la stessa sorte: nelle “disco” non si balla più, i preti — decimati — si dividono tra più parrocchie (e dopo questa frase attendo la scomunica a minuti), mentre Spotify ha polverizzato anche i vinili più iconici.
L’effetto è che oggi, di commercialisti, se ne incontrano meno. Ma non perché il mestiere non serva più (anzi!) ma perché — pare — non attragga più i giovani e le loro aitanti braccia, che invece bene farebbero alla semina della professione, ormai da troppo tempo lasciata a maggese (wow, che citazione bucolica!).
È forse un tema di vil pecunia? Parrebbe di no.
Perché, secondo l’Osservatorio sulle entrate fiscali 2025, i commercialisti restano tra le professioni più “ricche” d’Italia, con 88.366 euro di reddito medio lordo nel 2023, dietro solo a notai, farmacisti e attuari (che, fino a quando non ho letto la statistica e mi sono informato, associavo più a figure mitologiche che altro). E no, qui non dirò chi sono gli attuari perché voglio lasciare ai lettori la bellezza della scoperta. Hai visto mai che a qualcuno — folgorato sulla via di Damasco e ingolosito dal reddito — venga voglia di farlo. L’attuario.
Dicevamo… commercialisti uguale redditi elevati. Sulla carta un trionfo, quindi.
Ma come per quei gratta e vinci dai nomi un po’ esotici che mi han sempre fatto molto ridere — tipo “Un’estate al mare”, “Turista per sempre” o robe così — basta qualche colpo di monetina per togliere la patina dorata e capire che quella media è una strana distribuzione statistica che fa esplodere la testa in altre mille domande: in quanti guadagnano davvero? E soprattutto — per chi, come me, ha un debole per gli ultimi del gruppo — quanti stanno arrancando sui tornanti della professione, senza mai mollare?
I redditi salgono perché gli studi si svuotano?
L’impressione onesta, oggi, è che la torta resti, ma ad ogni soffio di candeline a tavola siedano sempre meno commensali. Forse non è un banchetto proprio felicione: diciamo che è piuttosto un pranzo sempre più francescano. In silenzio, sperando che il conto non sia troppo salato.
Facciamoci coraggio e andiamo per gradi, perché qui la storia è complessa e l’elefante va mangiato a pezzi. Quindi: perché non è più un mestiere che accende? O meglio: quando la fiamma si è spenta?
Non si sa, sta di fatto che le cose accadono.
I giovani lo percepiscono come un lavoro un po’ grigio, ripetitivo, “da genitore fifty-fifty, 50 per cento sclerato e 50 per cento stressato”, un po’ Wolf of Wall Street e un po’ Ricomincio da capo. Ok, può anche essere.
Non la vedono più come una professione, ma come una condanna a vita in costante equilibrio tra scadenze, dichiarazioni e clienti che ti scrivono alle 22:47 di sabato con “una cosa veloce” (“…e che non verrà mai fatturata…”). E anche qui, ci può stare.
Ma gli studi? Gli studi sono troppo impegnati a sopravvivere per costruire “seconde linee” solide in difesa, capaci di rilanci lunghi sulle fasce. E poi, chi ha tempo di formare il vivaio quando si è sempre in porta, a buttarla in calcio d’angolo? Chi rischia di affidare clienti a chi esperienza non ne ha, guidando — come direbbe Battisti — “a fari spenti nella notte”?
Chi investe su un giovane che “non sa ancora fare nulla”, quando i clienti chiedono risultati per ieri, e col rischio che pianti in asso tutti nella fatidica “stagione dei dichiarativi”, irretito da qualche azienda che invece ad agosto chiude sul serio?
E così, anno dopo anno, la professione si è chiusa a riccio. Difensiva. Solida ma assopita. Un po’ come un motore diesel: non molla mai, ma per eliminare quel fumo tocca fermarlo e rifare la carburazione.
Risultato: una generazione di professionisti in apnea, che fatica ad aprire le finestre per cambiare l’aria un po’ viziata e tornare a respirare.
Secondo me, il vero problema è che per anni la professione si è raccontata malissimo. Ma proprio male. Ma male male male. Ha messo in vetrina — proprio su quell’alzatina, in bella vista — un panino un po’ stantio, impastato di vecchie scadenze, ritardi cronici e doppia farcitura di stress. Una roba non proprio gourmet.
Ma c’è di peggio. Il dramma è che ha nascosto — custodendola in gran segreto, come il Sacro Graal — la parte più bella (e redditizia): la strategia, la lettura vera dei numeri, l’impatto reale sulle vite delle persone, lo scambio con l’imprenditore, quell’alzare l’asticella in modo tenace, salto dopo salto. Perché, diciamolo pure senza false modestie: un medico salva vite, vero, ma un buon commercialista può salvare famiglie intere — e, nei giorni buoni, intere aziende. Invece no, cacchio, è come se si fosse rimasti bloccati su una narrativa da ragioniere col calamaio, fermi in quelle discoteche che cantavano gli 883: struggentemente romantiche, certo, ma che non fanno più il pienone coi buttafuori all’entrata.
E ora, con l’intelligenza artificiale, la sfida si fa ancora più interessante (e anche un po’ pericolosa). I giovani spesso la usano in modo disinvolto, quasi spavaldo. I meno giovani, invece, la guardano come un umarell davanti ai cantieri: con le mani dietro la schiena e il sopracciglio alzato. Il punto, però, è che la forza sta proprio nella fusione dei due mondi. Nella centratura. Nel saper stare — una volta tanto — nel mezzo. In quell’equilibrio sospeso, a mezz’aria tra razionalità e immaginazione, senza farsi schiacciare dall’appiattimento, dove tutto è già stato pensato, ma niente davvero compreso.
Perché il rischio è questo: diventare esperti del dato ma analfabeti del senso più profondo.
Sì, a me piace immaginare che — proprio come i panda — con le unghie e con i denti, i professionisti possano aggrapparsi a quel “restare pensatori”. Anche se il mondo là fuori corre più veloce, restare, e ricordare che senza pensiero, nessuna rivoluzione vale davvero la pena.
Saint-Exupéry scriveva: “Se vuoi costruire una barca, non radunare uomini per tagliare la legna. Insegna loro la nostalgia per il mare vasto e infinito.” E così non serve accorciare il periodo di pratica professionale pensando che eliminando un pezzo di salita il traguardo si raggiunga più facilmente se poi lassù non c’è un bel panorama. Se questa è una strategia, forse non è quella giusta.
Dovremmo insegnare ai giovani commercialisti la nostalgia vera per la salsedine. Pagandoli davvero per il valore che portano allo studio, prospettando piani carrierali veri, coinvolgendoli nei passaggi generazionali per evitare di dissipare il valore dello studio costruito negli anni.
Insegnando loro la burocrazia sfidandoli a dare forma alla complessità per comprenderla, scomporla e risolverla.
Velasco, in una delle sue storiche frasi, disse: “Voglio schiacciatori che sanno schiacciare bene palloni alzati male.” Standing ovation.
Perché è così, ci saranno sempre palloni alzati male, e toccherà sempre far fatica per migliorare e portare a casa il punto, insieme. E la professione, anche se non è mai stata abituata, dovrà — finalmente — imparare a giocare in squadra per vincere la partita.
Forse con aggregazioni, forse fermandosi un attimo a riflettere e a trovare alternative, sicuramente facendosi ogni giorno la punta al cervello per migliorare servizi, processi e formare nuove leve. Perché il problema — tornando alla nostra barchetta — è che ci si è convinti che il mare sia diventato troppo pericoloso, troppo faticoso, troppo digitale.
E allora è più facile stare a riva, non portare più nessuno sulla barca, lamentandosi solo delle maree.
Ma Bowie cantava: “We can be heroes, just for one day.” E forse è proprio questo il punto: non servono supereroi, basta riscoprire il gusto di esserlo — per un cliente, per un progetto, per un’idea. Un giorno alla volta. Basta essere (e pensarsi) panda, qui tocca tornare esploratori. O, forse, ancora meglio, camaleonti: capaci di adattarsi al cambiamento veloce, che ormai è l’unica vera costante. Perché quello che deve far paura non è l’estinzione della specie, ma il non avere il coraggio di cambiare forma.