Il 25 novembre 2025, in Commissione VI Finanze alla Camera, succede una cosa curiosa. L’opposizione interroga il Governo sull’erosione della base imponibile IRPEF causata dal proliferare dei regimi sostitutivi.
Il Governo ha ammesso candidamente quello che chiunque lavori in uno studio commercialista sa da anni. L’IRPEF di Cosciani, quella sul reddito complessivo, è morta. L’hanno svuotata categoria per categoria, pezzo per pezzo.
Redditi fondiari? Cedolare secca al 10 per cento o 21 per cento. I redditi da locazione escono dall’IRPEF. Il Ministero dice che l’evasione sugli affitti è calata del 40 per cento, passando dal 25,3 per cento del 2010 al 10,1 per cento del 2022. Ottimo. Peccato che il Dipartimento Finanze del MEF, nella sua Relazione 2022, aveva già scritto che il saldo netto dell’introduzione della cedolare “è negativo dal punto di vista della finanza pubblica”. Costo per lo Stato: 3,1 miliardi all’anno. Più del taglio IRPEF previsto dall’ultima manovra.
Redditi di capitale? Tassazione proporzionale al 12,5 per cento, 20 per cento o 26 per cento. Fuori dall’IRPEF anche quelli.
Partite IVA fino a 85.000 euro? Regime forfettario al 5 per cento o 15 per cento. Sono 1,9 milioni di contribuenti. Un numero maggiore rispetto ai professionisti e agli imprenditori individuali in regime IRPEF ordinario. Il forfettario è oggi il regime naturale per chi vi può accedere, e la gran parte lo utilizza. Tecnicamente si può optare per l’IRPEF ordinaria, ma questa scelta è minoritaria e spesso meno conveniente. Un quadro o un dirigente d’azienda con 85.000 euro di reddito paga l’IRPEF al 43 per cento. Un forfettario con lo stesso fatturato paga il 15 per cento.
Cosa resta nell’IRPEF progressiva? I redditi da lavoro dipendente e le pensioni. Secondo le statistiche ufficiali del Dipartimento delle Finanze (tavole sui contribuenti per tipologia di reddito prevalente, anno d’imposta 2023), l’84 per cento del reddito complessivo dichiarato nel 2023 proviene da queste due categorie. Solo il 6,5 per cento dei contribuenti ha un reddito che deriva da impresa o lavoro autonomo.
E dentro quel 6,5 per cento ci sono le piccole imprese individuali sopra gli 85.000 euro, le società di persone, i professionisti che per dimensione o per natura della propria attività non possono accedere al forfettario. Quelli che hanno redditi importanti ma che, a differenza delle società di capitali con l’IRES al 24 per cento, pagano l’IRPEF piena con tutti i suoi scaglioni.
L’IRPEF è diventata quindi l’imposta sul lavoro dipendente e su chi non ha potuto scegliere. Non per vocazione, ma per esclusione. Tutti gli altri sono più o meno usciti.
Questi regimi frastagliati sono il risultato di campagne politiche che hanno semplificato con slogan un sistema complesso come quello delle entrate fiscali. Hanno preso una materia articolata e l’hanno ridotta a promesse da comizio. Semplificare con slogan ciò che è complesso non chiarisce le cose. Le offusca. Rende ancora più complicato qualcosa che era già complicato. Solo che adesso la complicazione è spacciata per semplificazione.
E le addizionali? Quelle le pagano solo i redditi che restano nell’IRPEF ordinaria. Nel 2023, l’addizionale regionale ha raggiunto 15,2 miliardi di euro, quella comunale 6,3 miliardi. Totale: 21,5 miliardi. Con un aumento del 9,6 per cento per la regionale e del 9,1 per cento per la comunale rispetto al 2022.
Ma attenzione: questo aumento non significa che il sistema funziona. Significa che Regioni e Comuni hanno alzato le aliquote e che i redditi nominali sono cresciuti. Nel frattempo, la platea di chi paga si è ristretta. Ogni contribuente che passa alla cedolare secca, al forfettario o a un altro regime sostitutivo esce dal calcolo delle addizionali. Smette di pagare.
Qui sta il punto tecnico che nessuno spiega. Chi opta per la cedolare secca non paga le addizionali regionali e comunali. Chi è nel forfettario non le paga. Chi ha redditi di capitale tassati al 26 per cento non le paga. Le addizionali gravano solo sui redditi che restano nell’IRPEF ordinaria. In pratica, la base imponibile è oggi composta quasi interamente da redditi di lavoro dipendente, pensioni e da quel piccolo segmento di autonomi e imprenditori in regime ordinario.
E quando Regioni ed Enti locali perdono gettito perché sempre più contribuenti escono dall’IRPEF? Il Ministero lo dice candidamente nella risposta parlamentare: le minori entrate vengono compensate dallo Stato mediante la compartecipazione all’IVA. Tradotto: lo Stato trasferisce a Regioni e Comuni una quota maggiore del gettito IVA nazionale per coprire i buchi lasciati dai regimi sostitutivi.
Il meccanismo è questo. Un proprietario di casa passa dall’IRPEF alla cedolare secca. Il Comune perde la sua addizionale comunale. Lo Stato dice al Comune: ti compenso con più soldi dalla quota IVA che ti spetta. Ma quei soldi dell’IVA arrivano dal bilancio generale dello Stato. E il bilancio generale dello Stato è finanziato in larga parte dall’IRPEF. Di fatto, si sposta il carico dal livello locale al livello centrale, in un contesto in cui chi finanzia davvero il sistema è sempre più concentrato in una platea ristretta: dipendenti, pensionati e quel piccolo segmento di autonomi e imprenditori che non possono uscire.
Decine di regimi sostitutivi diversi. Cedolare secca, forfettari, tassazioni proporzionali su specifici redditi. Ognuna spacciata per agevolazione. Ognuna che sottrae reddito alla progressività.
E ora che l’IRPEF è diventata l’imposta sul lavoro dipendente, il Governo continua a sbandierare semplificazioni e riforme mentre costruisce un sistema dove chi non può scegliere, ovvero chi paga IRPEF piena, addizionale regionale e addizionale comunale, tiene di fatto in piedi il sistema.
Mentre Governo e opposizione discutono in Parlamento, il sistema fiscale italiano ha già dato la sua risposta. Non servono altre promesse. Basta guardare i numeri.


