La chiamano erosione del ceto medio, in parole semplici e chiare significa che in Italia c’è sempre meno ceto medio e più polarizzazione tra benestanti, da una parte, e famiglie povere dall’altra. Dove a essere povere in realtà sono quelle famiglie che, pur avendo un lavoro, non riescono più a mantenere il proprio tenore di vita e scivolano verso la ristrettezza economica.
In pratica, è quell’Italia che lavora, risparmia quel che può, paga il mutuo e le tasse. Non fa rumore, ma tiene in piedi la baracca. È il ceto medio, la spina dorsale economica e culturale del Paese. O almeno lo era. Oggi quella stessa classe vive l’umiliazione quotidiana del non riuscire più a salire. Anzi, in molti casi sta scivolando, lentamente, ma inesorabilmente. E il dato più inquietante è che sta succedendo anche a chi ha un lavoro.
Ma gli italiani non ci stanno ad abbandonare il loro status sociale e infatti, stando ai dati del rapporto CIDA-Censis 2025, ben il 66% si identifica ancora nel ceto medio, nonostante i redditi più bassi siano a 16.000 euro annui e al massimo arrivino a 35.000 euro: troppo per ricevere aiuti, troppo poco per vivere bene. Il risultato? Un enorme paradosso: si lavora, ma non basta.
E il paradosso è che il metro di giudizio, per dichiarare la propria appartenenza allo sgretolato ceto medio, non è il fattore economico. Non il biglietto da visita aziendale da sfoggiare orgogliosamente, non la casa, nemmeno l’auto.
Più del 90% infatti valuta il sapere, il livello di istruzione, le competenze acquisite
come “ciò che conta davvero”. L’identikit del ceto medio è quello di chi crede nella scuola e nella formazione, nel lavoro, nella mobilità sociale. Ma se viene abbandonato a sé stesso, il rischio per il Paese non è solo economico, ma democratico.
Infatti, più di otto italiani su dieci affermano di non vedere riconosciuto il valore delle proprie competenze nel reddito. Se il valore delle competenze non si traduce in un adeguato ritorno economico, ecco che si apre una frattura profonda, tra capitale culturale ed economico. E il patto sociale si spezza.
Il motore della scala mobile, che il ceto medio utilizza ogni giorno per cercare di avanzare, si arresta: ciò che prima era ambizione, slancio, spinta verso l’alto diventa ora sopravvivenza, una lotta quotidiana per restare a galla. E questo galleggiare continuo si trasforma in stanchezza, malessere sociale diffuso ma anche disillusione e rancore.
Ed è lì dove le prospettive per il futuro non prevedono inclusione per sé e per i propri figli, lì dove innovazione, tecnologia e AI non fanno che ridurre le chances in una società solo apparentemente più dinamica, che il ceto medio rinuncia alla resistenza e sogna altro. Perché non si tratta più di “tirare la cinghia" ma di vedersi togliere anche la dignità economica e sociale. Proprio nei confronti di quel ceto che ha sempre tenuto in piedi l’Italia ed è stato spremuto fino all'ultima goccia.
Nel paradosso di non arrivare a fine mese, il ceto medio continua a investire. Il 67% delle famiglie con figli sostiene spese straordinarie per garantire il loro futuro, finanziando attività extra come lo sport e lo studio delle lingue straniere. Oltre il 41% aiuta figli (o nipoti), contribuendo alle spese domestiche o mediche: una “generosità silenziosa” che continua a sostenere il tessuto sociale italiano ma che cova un piano B. Mandare i figli all’estero.
Ebbene sì, perché il 50% dei genitori pensa che i figli staranno peggio di loro, e oltre la metà di loro li incoraggia ad andare all’estero, valutando positivamente esperienze come l’Erasmus o addirittura, se possibile, frequentare l’università direttamente oltreconfine. Perché se il requisito di base per il proprio posto nella società non è più il reddito, allora diventa necessaria una nuova visione del mondo. Merito, meritocrazia. Altrove e ovunque questo sia possibile, se nel proprio Paese mancano.