C’è qualcosa di profondamente stonato nelle parole pronunciate dal Ministro Giorgetti lo scorso 25 settembre 2025, in occasione del question time in Senato.
Alla richiesta di esprimere un’opinione in merito all’opportunità - a fronte di un maturato orientamento dei giudici di legittimità - di consentire l’esercizio dell’opzione della cedolare secca anche in presenza di conduttori che operano in regime di impresa, il Ministro sostiene la posizione restrittiva dell’Agenzia delle Entrate e auspica un mutamento del giudizio giurisprudenziale.
Nell’affermare ciò, il Ministro si preoccupa dei riflessi che lo “sblocco” della questione potrebbe generare sulla finanza pubblica, dimenticandosi forse che tra i principi e i criteri direttivi fissati dalla legge delega n. 111/2023 si prevedeva espressamente la possibilità di estendere il regime agevolato persino agli affitti commerciali.
Il nocciolo della questione è noto.
L’articolo 3, comma 6, del Dlgs. 23/2011 esclude la cedolare secca per le locazioni effettuate “nell’esercizio di attività d’impresa, arti o professioni”.
L’Agenzia delle Entrate, per sua interpretazione, attraverso l’impostazione di un blocco nella procedura telematica di registrazione dei contratti di locazione, impedisce l’esercizio dell’opzione nel caso in cui il conduttore non sia un soggetto privato.
La Cassazione, in più occasioni (sentenze n. 12395/2024, n. 12076/2025 e n. 12079/2025), ha chiarito che l’esclusione normativa attiene solo alla figura del locatore e non anche a quella del conduttore. In altre parole: se un privato decide di affittare un appartamento a un’impresa, nulla vieta - secondo la Cassazione - che il locatore possa optare per la cedolare secca.
Una conclusione ineccepibile, sia sotto il profilo logico che sotto quello sistematico, che rispetta sia la lettera della norma, sia la ratio dell’istituto, previsto non solo per contrastare l’evasione, ma anche per ampliare l’offerta di alloggi. Del resto, quale differenza sostanziale vi è tra affittare a un lavoratore e affittare a un’impresa che destina quell’immobile al proprio lavoratore? Probabilmente nessuna.
Eppure, nonostante un orientamento giurisprudenziale ormai plurimo e consolidato, l’Agenzia - e ora anche il MEF - continua a chiudere gli occhi. E lo fa(nno) con una motivazione che lascia perplessi: le esigenze di gettito erariale.
Tradotto: non importa cosa prevede la legge, non importa cosa dice la Cassazione, non importa se la scelta interpretativa crea distorsioni.
Non è tutto. Il Ministro Giorgetti, con un candore che rasenta la provocazione, ha auspicato che la questione venga rimessa alle Sezioni Unite, così da tentare un ribaltamento dell’orientamento della stessa giurisprudenza di legittimità.
In pratica, non si tratta di attendere una linea interpretativa stabile - come sarebbe fisiologico in uno Stato di diritto - ma di sperare che la Corte stessa cambi idea, magari “aiutata” dall’insistenza dell’Avvocatura dello Stato. Una posizione che, al di là della sua debolezza tecnica, suona quasi come un invito alla magistratura a piegarsi alle ragioni di cassa.
Così facendo, il MEF finisce per legittimare una deriva pericolosa: l’Agenzia delle Entrate non si limita più a controllare e applicare la legge, ma si erge a interprete unico e incontestabile, al punto da pretendere di dettare la linea persino alla Cassazione. È un capovolgimento dei ruoli istituzionali che mina i fondamenti stessi della certezza del diritto. Se le norme devono essere scritte dal Parlamento, e interpretate dai giudici, quale spazio resta per un’Amministrazione che non accetta di sottoporsi a tali regole e rivendica la propria “autonomia” ermeneutica?
Viene quasi da chiedersi se non sarebbe più onesto - e meno costoso per tutti - abolire i giudici tributari e affidare direttamente all’Agenzia sia il compito di scrivere le norme che quello di applicarle. Avremmo meno contenziosi e più “efficienza”, almeno in termini di gettito.
Certo, sarebbe la fine dello Stato di diritto, ma almeno (paradossalmente) avremmo chiarezza.
Il fatto è che la stessa legge delega invitava il Governo a valutare proprio l’estensione della cedolare secca ad altre tipologie di locazioni. Oggi, invece, il MEF si rifugia dietro una posizione restrittiva, contraria alla giurisprudenza e incoerente con i propri stessi indirizzi politici.
In definitiva, questa vicenda rappresenta un banco di prova emblematico. O si riconosce che le norme vanno interpretate in coerenza con la lettera e la ratio, e che le sentenze della Cassazione hanno un peso vincolante, o si accetta che, in materia tributaria, il principio di legalità può essere piegato alle esigenze di bilancio. Nel primo caso si tutela la certezza del diritto e si riducono i contenziosi. Nel secondo, si apre la strada a un arbitrio pericoloso, dove la parola finale non spetta né al legislatore, né al giudice, bensì all’Amministrazione finanziaria.
Un’ipotesi, quest’ultima, che dovrebbe inquietare non solo i contribuenti, ma chiunque abbia a cuore lo Stato di diritto. Perché, se oggi si sacrifica la coerenza normativa sulla cedolare secca, domani nulla impedirà di farlo su altri istituti.
E allora, tanto varrebbe ammettere apertamente che in Italia la vera fonte del diritto tributario non è più il Parlamento o la Cassazione, ma l’Agenzia delle Entrate.