CATTIVI PENSIERI (MA NON SEMPRE) - Sull’onere della prova per le società a ristretta base non è davvero cambiato nulla?
di Dario Deotto
Per la Cassazione, nonostante la specifica previsione (comma 5-bis dell’articolo 7 del Dlgs 546/1992), sembra non sia cambiato nulla: né (pare) sull’onere della prova in generale né sulla vicenda probatoria degli accertamenti nei confronti dei soci di una società a ristretta base partecipativa.
Lo conferma anche la recente pronuncia n. 11956 del 7 maggio scorso. Secondo la Corte “la presunzione in discorso, la quale rinviene il suo fondamento nella complicità che di regola avvince un gruppo societario composto da poche persone, rimane valida pure dopo l’introduzione dell’articolo 7, comma 5-bis, del Dlgs n. 546 del 1992, il quale non comporta alcuna inversione del riparto dell’onere probatorio, né preclude il ricorso alle presunzioni semplici disciplinate dal codice civile”.
Che l’articolo 7, comma 5-bis, della L 546/1992 non determini alcuna influenza sugli accertamenti fondati sulle presunzioni semplici siamo perfettamente d’accordo, mentre non si è affatto concordi sul fatto che la disposizione non determini alcuna inversione dell’onere probatorio né che non modifichi (proprio) nulla quanto agli oneri di prova riferiti agli accertamenti nei confronti dei soci di società a ristretta base sociale.
Come si ricorderà, l’incipit del comma 5-bis dell’articolo 7, Dlgs n. 546/1992, è davvero incontrovertibile: “L’amministrazione prova in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato”. In questo modo si è inequivocabilmente introdotta nel processo tributario una regola propria per dirimere le questioni in ordine al riparto dell’onere della prova, superando così il disposto dell’articolo 2697 c.c., e con esso l’impropria trasposizione nel comparto tributario di dinamiche essenzialmente privatistiche. In base alla nuova regola, dunque, è il Fisco che - in linea generale - deve provare le contestazioni afferenti a tutte le tipologie di violazioni. L’unica espressa eccezione, abbastanza scontata, riguarda le liti da rimborso, in relazione alle quali la prova spetta sempre al contribuente. L’inversione probatoria in capo al contribuente si realizza – ulteriormente – in presenza di presunzioni legali relative.
Altro aspetto determinante della previsione del comma 5-bis è che l’onere probatorio viene individuato “in coerenza con la normativa tributaria sostanziale”. In questo modo diventa oltremodo inammissibile la tesi del “doppio binario probatorio”, che vedrebbe l’Amministrazione onerata per gli accertamenti sui componenti positivi del reddito d’impresa mentre il contribuente per quelli negativi. È evidente l’erroneità di una simile tesi: non si tiene conto che la determinazione del reddito d’impresa è un valore netto, dato dalla contrapposizione di componenti positivi e negativi. Chi sostiene (Cassazione in primis) una tale lettura non considera, sostanzialmente, che il reddito d’impresa non è dato soltanto dai componenti positivi: la deduzione di un componente negativo non è certamente una norma di favore, così da renderla assimilabile ad un diritto (alla sua deduzione, nell’ottica dell’articolo 2697 c.c.).
In sostanza, si ritiene che la previsione del comma 5-bis abbia – certamente – influenzato le regole sull’onere probatorio, inserendo un concetto di prova “autoctono” del diritto tributario, mutuandolo certamente dall’articolo 2697 ma anche tenendo conto della peculiarità della materia.
Ed è per questo che se il comma 5-bis non ha innovato nulla – in termini generali - per quanto concerne gli accertamenti di tipo presuntivo (sia quelli basati su presunzioni legali che semplici: per le presunzioni semplici l’onere è, ed è sempre stato, ovviamente, in capo all’Agenzia), il riferimento alla normativa tributaria sostanziale risulta certamente fondamentale per tutta una serie di vicende: una è sicuramente quella dei redditi imputati ai soci di società a ristretta base che non possono continuare a venire imputati, di fatto, per trasparenza, in luogo della disciplina (propria) dei redditi di capitale, anche considerando quanto, con carattere chiaramente interpretativo, dispone la legge delega di riforma fiscale (“ferma restando la natura di reddito finanziario conseguito dai predetti soci” – articolo 17 della L 111/2023).
Quindi, erra certamente la Corte di Cassazione quando afferma che nulla è mutato e avvalora sostanzialmente l’attribuzione ai soci “per trasparenza” del maggior reddito accertato nei confronti della società a ristretta base.
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Foto di Pheladi Shai da Pixabay