CATTIVI PENSIERI (MA NON SEMPRE) – Il feticismo normativo sull’intelligenza artificiale – Per un diritto come regolatore di possibilità
di Dario Deotto
All’ennesima lode letta (e anche sentita…) al riguardo della regolazione unionale e italica dell’intelligenza artificiale, scuserete se sfogo con voi – lettori di Blast - il mio disappunto, condividendo anche un paio di ragionamenti.
Il primo. L’ipocrisia o (non può essere altrimenti) la mancata comprensione di ciò che sta accadendo da parte di un legislatore che vorrebbe disciplinare la “dimensione antropocentrica” dell’intelligenza artificiale (questo sia l’AI Act che la L. 132/2025).
Partiamo da una (necessaria) premessa.
Penso che sia sotto gli occhi di tutti che il progresso scientifico-tecnologico offre oggi infinite possibilità. Già Nietzsche definì la Tecnica “volontà di potenza”. Il codice della Tecnica risulta, infatti, il codice del “poter fare”: quello della “quantità”, che insegue livelli crescenti di potenza e, quindi, appunto, del poter fare.
Occorre considerare che con il termine “Tecnica” va inteso sia l’universo di “mezzi”, che nel loro insieme compongono l’apparato tecnico, sia la razionalità che presiede il loro impiego in termini di funzionalità ed efficienza (Galimberti). Le parole della Tecnica sono, dunque, razionalità, funzionalità, proceduralizzazione ed efficienza (la Tecnica “funziona”, così che pone in secondo piano ogni scenario umanistico).
Originariamente la Tecnica è risultato il mezzo per ovviare all’insufficienza biologica dell’umano. Senza Tecnica, indubitabilmente, l’uomo non sarebbe sopravvissuto (Prometeo è risultato, di fatto, l’inventore della Tecnica). Tuttavia, oggi lo scenario non appare più quello dell’uomo/soggetto che si avvale della Tecnica come “oggetto”, come strumento a sua disposizione. In sostanza, la Tecnica non risulta più “mezzo” per realizzare il “fine” dell’uomo, ma risulta essa stessa “fine”. Se la Tecnica aumenta quantitativamente al punto da rendersi disponibile per il raggiungimento di qualsiasi fine, che non può essere raggiunto prescindendo dal mezzo tecnico, il conseguimento del mezzo diventa il vero fine che tutto subordina a sé (Severino).
Così, si assiste a quel capovolgimento per cui il “soggetto” non è più l’uomo, ma la Tecnica che, emancipatasi dalla condizione di mero strumento, dispone della natura a suo piacimento e dell’uomo come suo funzionario (sempre Galimberti).
In sostanza, e in termini basici: l’orizzonte antropocentrico risulta completamente dissolto perché il potere non è più dell’uomo né della politica, ma della Tecnica. Con riferimento, in particolare, alla politica, è fin troppo evidente la funzione servente di quest’ultima rispetto alla tecnocrazia, che è diramazione della Tecnica – e ai desiderata della stessa Tecnica: basterebbe soffermarsi su alcune istantanee fatte allo Studio Ovale, appena dopo la recente elezione trumpiana.
Tant’è che, venendo al diritto (inteso come sistema autoritativo di norme), uno dei più illustri giuristi italiani, Irti, parla (e scrive, in Sguardi nel sottosuolo,2025) di un diritto diviso. Da una parte, il diritto della tecnoeconomia (il soprassuolo) che crea esso stesso le proprie regole, affrancandosi dai confini degli Stati; dall’altra, il diritto, antico e tradizionale, dei singoli Stati (o delle unioni di Stati) e degli individui (il sottosuolo). Quest’ultimo diritto prova peraltro a inseguire, sempre con affanno, il “sopra-mondo”, quello della tecnoeconomia che, a dirla tutta, dell’antropocentrismo se ne fa un baffo e, comunque, dal quale se ne è del tutto affrancata.
Ecco perché è del tutto fuori luogo e fuori tempo chi scrive norme enfatizzando pseudo dimensioni antropocentriche rispetto all’intelligenza artificiale.
E non è un caso che chi scrive ciò è anche completamente fuori dai giochi dalla grande partita economica/finanziaria dell’intelligenza artificiale, e non solo.
Fa quasi commuovere – davvero – una previsione come quella italica, ma ne è solo un esempio, che impone al professionista la dichiarazione al proprio cliente circa l’impiego dell’intelligenza artificiale, come se, in passato, di fronte alle centinaia di “guide facili” contenenti, spesso, vari errori, il professionista avesse dovuto dichiarare di avere attinto dalle suddette guide. Illuminante quanto riportato da Noci sul Il Sole 24 Ore del 18 ottobre scorso: ”gli altri costruiscono il futuro: noi compiliamo l’autocertificazione per poterlo osservare da lontano”.
A questo punto, ed è questo il secondo ragionamento che volevo svolgere (avevo detto: un paio), occorre comprendere se il diritto, o quel che resta di esso, per sopravvivere debba in qualche modo cambiare passo. Di fronte alla Tecnica che avanza speditamente e offre infinite possibilità, ha ancora senso un diritto (inteso, ripeto, come sistema autoritativo di norme) che si propone di regolare tutto e tutti?
Se si riflette: il diritto ha sempre inseguito la Tecnica, ma in questo momento storico in cui quest’ultima viaggia ad una velocità siderale, normare nel dettaglio una tecnologia che per sua natura viaggia così speditamente significa condannare all’oblio il già claudicante diritto.
Questo non significa – a mio avviso (per quel che può valere il mio pensiero) - che il diritto debba astenersi da qualsiasi regolazione della tecnologia, ma dovrebbe farlo a livello di principi, in particolare (solo) di quelli fondamentali (già presenti in moltissimi ordinamenti), che possono più verosimilmente essere riconosciuti a livello globale.
Un diritto che assuma le sembianze, dunque, più di un “regolatore di possibilità” che di un inconsistente ostacolo alla volontà di potenza della Tecnica.


