Cattivi pensieri (ma non sempre) - Anche gli “infortuni” a Telefisco ora legittimano norme di interpretazione autentica
di Dario Deotto
Quale canone di ragionevolezza o quale motivo di interesse generale vi è nello stabilire che solo i conferimenti d’azienda, e non (ovviamente) quelli in denaro, costituiscono causa di esclusione e/o di cessazione dal concordato preventivo biennale? O, ancora: quale grave incertezza normativa o quale forte contrasto giurisprudenziale sussiste(va) sulla questione?
Gli interrogativi nascono dall’analisi del recente schema di Dlgs esaminato nel Cdm di giovedì scorso, correttivo di vari altri decreti attuativi della riforma, tra cui il Dlgs 13/2024 relativo (anche) al concordato preventivo (c.d. CPB).
Vediamo di riepilogare la vicenda.
In uno degli innumerevoli interventi (precedenti) di correzione delle disposizioni del CPB, è stato stabilito che se la società è interessata “da operazioni di fusione, scissione, conferimento” si avvera ipotesi di esclusione così come di cessazione del concordato.
Il riferimento alle “operazioni”, accostate a quelle di fusione e scissione, non aveva, per i conferimenti, mai suscitato il minimo dubbio, anche considerando la ratio delle suddette situazioni di esclusione/cessazione: non poteva che trattarsi dei conferimenti relativi ad aziende e rami d’azienda.
Nel corso di Telefisco 2025, però, qualcuno ha avuto forse la non felice idea di chiedere se rilevano, ai fini delle predette situazioni, anche conferimenti diversi, come quelli in denaro o relativi a crediti. La risposta dell’Agenzia è stata affermativa, nel senso che per l’ente erariale anche tali ipotesi realizzano (realizzerebbero) situazioni di esclusione e di cessazione dal concordato. L’”infortunio” è sembrato subito evidente ai più.
Così, con il decreto “correttivo” di giovedì scorso – che inizierà ora il suo iter parlamentare – viene previsto, con norma di interpretazione autentica, che “per operazioni di conferimento si intendono esclusivamente quelle che hanno ad oggetto un’azienda o un ramo d’azienda”.
Tutto bene, dunque? Dai primi commenti, parrebbe di sì.
In realtà, personalmente, rimango molto perplesso: forse più imbarazzato che perplesso.
Il personale imbarazzo deriva dall’estrema disinvoltura con la quale, ultimamente, il legislatore (…) utilizza lo strumento della norma di interpretazione autentica.
Si ricorderà che, sempre abbastanza recentemente, con norma di interpretazione autentica è stata stabilita l’”espulsione” dal contraddittorio preventivo degli avvisi di recupero dei crediti inesistenti (articolo 7-bis del Dl 39/2024) – qui, davvero, l’incontrastato dominio del legislatore erariale ha forse raggiunto il suo apice, nel silenzio pressoché generale, avendo avuto l’ardire di escludere dal confronto preventivo una tematica davvero delicata, per la quale il contraddittorio servirebbe “come il pane”, aggravata da una previsione normativa molto, ma molto, più equivoca della precedente – così come, sempre con norma di interpretazione autentica, l’articolo 21 del Dl 34/2023, è stato delimitato l’ambito di applicazione del ravvedimento speciale della cosiddetta “tregua fiscale” di allora (guardacaso facendolo collimare con il pensiero delle Entrate).
In pratica, ci chiediamo: le leggi di interpretazione autentica si possono davvero utilizzare con questa disinvoltura (per affermare, sostanzialmente, il pensiero delle Entrate oppure quando quest’ultima si avvede dell’”errore” e intende porvi rimedio)?
Occorre rilevare che l’interpretazione autentica – tralasciando i requisiti che imporrebbe lo Statuto del contribuente per tale strumento legislativo - pur non risultando costituzionalizzata, deve risultare ragionevolmente giustificata da motivi imperativi di interesse generale. Quindi la norma di interpretazione autentica può essere adottata non solo per ovviare ad una situazione di grave incertezza normativa o a forti contrasti giurisprudenziali oppure per avversare un orientamento giurisprudenziale sfavorevole (seppure nell’ambito della latitudine della norma interpretata), tuttavia, in linea generale, deve comunque tenere conto del canone della ragionevolezza.
Ebbene: nel caso dei conferimenti rilevanti ai fini del concordato preventivo – ma anche negli altri esempi riportati (quello dei crediti inesistenti è davvero rilevante) – quale grave incertezza normativa sussisteva? C’era, forse, qualche contrasto giurisprudenziale? Oppure, magari, vi era l’esigenza di tutelare principi, diritti e beni di rilievo costituzionale, che costituiscono altrettanti motivi imperativi di interesse generale? Si sono enumerati, negli interrogativi posti, gli elementi che, secondo la Corte Costituzionale, risultano determinanti per evitare l’abuso delle norme di interpretazione autentica.
Ovviamente, nel caso dei conferimenti per il concordato - così come nel divieto di contraddittorio per i crediti inesistenti – non sussisteva alcuno di tali presupposti.
Sussiste(va) solo quello dell’incontrastato dominio della prassi (che consente a quest’ultima di dare rilevanza, addirittura, ad un “infortunio” a Telefisco per giustificare l’adozione dello strumento legislativo interpretativo), nel sempre più inquietante silenzio di quasi tutti gli “attori fiscali”.