Pochi se ne sono accorti (anzi, nessuno, mi pare, perlomeno a livello di pubblicistica), ma il Dlgs 192/2024, attraverso l’articolo 20, non ha soltanto dimezzato le percentuali rilevanti ai fini del test di operatività e del reddito minimo delle società di comodo. La norma, di fatto, si propone anche di (meglio) fissare l’ambito di operatività della presunzione riferita alle predette società. Per la quale (presunzione) sussistono vari fraintendimenti interpretativi.
Partiamo dalla previsione dell’articolo 20 (citato). Viene stabilito che «nelle more della revisione della disciplina di contrasto al mero godimento dei beni messi a disposizione dei soci e dei loro familiari gratuitamente o a fronte di un corrispettivo inferiore al valore normale, nell’ambito della disciplina delle società di comodo, a decorrere…» dal 2024 vengono ridotte alla metà le percentuali di cui si è detto prima.
Si ricorderà che la legge delega di riforma fiscale prevede la revisione della disciplina delle società di comodo attraverso nuovi parametri che consentano di individuare le società effettivamente “senza impresa”, facendo riferimento, in particolare, alla disciplina Iva e alla giurisprudenza interna oltreché a quella unionale. Nei documenti accompagnatori si menzionano le disposizioni dell’articolo 4 del Dpr 633/1972, in base al quale non sono considerate attività commerciali il possesso di determinati beni (immobili abitativi, unità da diporto, aeromobili da turismo, ecc.) che vengono messi a disposizione dei soci e dei loro familiari gratuitamente o a fronte di un corrispettivo inferiore al valore normale. Allo stesso modo, non vengono considerate attività commerciali in ambito Iva il possesso, non strumentale né accessorio ad altre attività esercitate, di partecipazioni o quote sociali, costituenti immobilizzazioni, al fine di percepire dividendi, interessi o altri frutti, senza strutture dirette ad esercitare attività finanziaria, ovvero attività di indirizzo, di coordinamento o altri interventi nella gestione delle società partecipate.
Sicché, pur non avendo dato espressamente attuazione ai suddetti principi, il Dlgs 192/2024 sembra comunque fissare il solco entro il quale la disciplina delle società non operative deve necessariamente collocarsi: quello del contrasto alle società che non svolgono un’effettiva attività economica – come si è sempre sostenuto – in quanto i beni societari vengono distolti dalla predetta attività, poiché impiegati per il godimento dei soci. D’altronde, la ratio del test di operatività è proprio questa: se determinati beni non producono dei “frutti minimi” (ricavi), nasce il sospetto che gli stessi beni vengano impiegati per finalità che nulla hanno a che vedere con quelle societarie.
Va sottolineato che il fenomeno delle società non operative è sempre stato, dapprima, di ordine civilistico, in relazione a quella “zona grigia” che si pone tra le disposizioni relative al contratto di società (articolo 2247 Cod. civ.) e quelle della comunione a scopo di godimento (articolo 2248 Cod. civ.).
In sostanza, nella società i beni comuni hanno (avrebbero) funzione “servente” rispetto all’attività economica, mentre nella comunione si ha un’inversione del rapporto beni-attività, nel senso che è l’attività che svolge un ruolo servente rispetto allo scopo dei contitolari dei beni, che è la loro conservazione al fine di consentirne un migliore godimento individuale, sia diretto – come nel caso di destinazione di un immobile ad abitazione personale – che indiretto – come avviene per la concessione in locazione dello stesso immobile a terzi.
Si può quindi dire che la norma di cui all’articolo 2248 Cod. civ. assolve, all’interno del sistema, la funzione di delimitare gli ambiti di applicazione, rispettivamente, delle norme sulla comunione, contenute nel libro terzo del codice civile, e delle norme sulla società, contenute nel libro quinto.
Tuttavia, non si può negare che la linea di discrimine fra fattispecie societaria e quella di mera comunione di godimento è sempre stata di difficile individuazione. In passato, si era affermata la tesi che per scardinare l’abuso della persona giuridica si potesse far ricorso all’istituto della simulazione ex articoli 1414 ss. Cod. civ. (in questo senso Cassazione, n. 8939/1987). Tale tesi, tuttavia, venne ben presto rigettata da successive pronunce che hanno affermato l’irrilevanza della simulazione in materia di società di capitali.
Sicché, gli interventi “repressivi”, di contrasto del fenomeno delle società di comodo, sono stati affidati, di fatto, al legislatore tributario.
L’articolo 30 della L. 724/1994 si è infatti proposto di contrastare le società di comodo attraverso una sorta di imposizione specifica che colpisce l’abuso della persona giuridica, ossia una tassazione “dissuasiva” della scelta di utilizzare un involucro societario al quale vengono intestati beni non afferenti un’attività economica. Tutto ciò risulta confermato anche dai documenti di prassi delle Entrate (circolari 5/E/2007 e 7/E/2013).
Nella circolare n. 5/E del 02/02/2007, in particolare, è stato chiaramente affermato che «la disciplina fiscale delle società non operative è stata introdotta nel nostro ordinamento [omissis] allo scopo di contrastare il ricorso all’utilizzo dello strumento societario come schermo per nascondere l’effettivo proprietario di beni, avvalendosi delle più favorevoli norme dettate per le società. In sostanza, la richiamata disciplina intende penalizzare quelle società che, al di là dell’oggetto sociale dichiarato, sono state costituite per gestire il patrimonio nell’interesse dei soci, anziché esercitare un’effettiva attività commerciale».
Ma non solo. Anche la specifica previsione dell’articolo 2, comma 36-quinquies, del Dl 138/2011 – in base alla quale viene stabilito che, per le società non operative, l’aliquota IRES viene elevata di 10,5 punti percentuali – conferma la volontà di penalizzare i risultati societari come se lo schermo societario non esistesse, assoggettandoli ad un’aliquota molto prossima all’IRPEF applicata ai più elevati scaglioni di reddito delle persone fisiche.
Ad ogni modo, occorre rilevare che l’istituto delle società “di comodo” contempla due presunzioni legali relative, ossia:
1. una prima presunzione, tale per cui le società si considerano non operative se non superano il c.d. “test di operatività”;
2. una seconda presunzione, che trova applicazione soltanto all’avverarsi della prima, in base alla quale si presume che, per le società considerate non operative (prima presunzione), il reddito del periodo d’imposta e il valore della produzione netta Irap non possano essere inferiori all’importo minimo forfettariamente determinato.
Si tratta di presunzioni legali cosiddette “a catena” (o doppie presunzioni, tollerate per quelle “legali”). Il contribuente ritenuto “non operativo” ha, quindi, dapprima l’onere di dare prova di avere compiuto degli atti economici propri di un’attività imprenditoriale (o dell’impossibilità a compierli). Se tale prova viene fornita, non può, evidentemente, trovare applicazione la seconda presunzione, legata alla dichiarazione dei valori minimi.
Pertanto, quello che va sottolineato è che la prova contraria non può risultare circoscritta alle oggettive situazioni che rendono impossibile il conseguimento di ricavi e dei valori minimi (comma 4-bis dell’articolo 30). In sostanza, le oggettive situazioni non limitano i contenuti della prova contraria che le società possono fornire in sede contenziosa. Ed infatti, in quest’ultima sede la società può avanzare ogni contestazione ritenuta utile al fine del convincimento del giudice così da avvalorare il fatto che l’ente, nell’ottica dell’articolo 2247 Cod. civ., svolge un’attività economica (documentabile, ad esempio, dai bilanci) o delle ragioni che hanno impedito lo svolgimento della stessa. Non possono nemmeno escludersi circostanze soggettive, derivanti da valutazioni dell’imprenditore rivelatesi poi errate al fine del conseguimento dei redditi.
La limitazione della prova contraria alle oggettive situazioni che hanno impedito il conseguimento dei ricavi e dei valori minimi risulterebbe peraltro lesiva degli articoli 24 e 53 Cost.
Ora, di fatto, il Dlgs 192/2024 conferma che la disciplina delle società non operative (che dovessero risultare tali anche dopo il dimezzamento dei coefficienti) può essere contrastata dimostrando che i beni societari non sono affatto messi a disposizione dei soci e dei loro familiari (gratuitamente o attraverso corrispettivi irrisori), e che l’ente societario svolge una reale ed effettiva attività economica. La novella ribadisce, in sostanza (facendo riferimento alla disciplina del contrasto al mero godimento dei beni messi a disposizione dei soci o dei familiari), che la norma vuole avversare il fenomeno dell’abuso dello schermo societario. Quando non c’è questo abuso (che nulla ha a che vedere con l’abuso del diritto) la società deve considerarsi a tutti gli effetti operativa.