Caldo estremo e lavoro all'aperto, perché le ordinanze regionali non sono la vera soluzione
di Claudio Garau
I giorni di caldo torrido minacciano moltissimi lavoratori. Colpi di calore, malori improvvisi e gravi incidenti rappresentano eventualità che non possono sempre essere evitate con il ricorso all'aria condizionata. Il rimedio, allora, non può che essere normativo. Ecco perché, in queste settimane, varie Regioni italiane hanno deciso di emettere apposite ordinanze anti-caldo, recanti la previsione della sospensione del lavoro all'aperto nelle ore più critiche della giornata. I destinatari dei provvedimenti sono principalmente coloro che lavorano nei settori agricolo e florovivaistico, edilizio e delle cave e cantieri stradali, ma - al di là della frammentarietà delle categorie professionali interessate - ciò che emerge, a prima vista, è l'assenza di una strategia coordinata a livello nazionale, a differenza di altri Stati europei come ad es. la Spagna, che ha varato un divieto nazionale di svolgere mansioni all'aperto e a diretto contatto con i raggi solari.
Sotto il profilo tecnico-giuridico, tali ordinanze regionali si fondano su quanto previsto dall'articolo 117, comma 3 Cost., il quale include tra le “materie concorrenti” - in cui Stato e Regioni possono legiferare - anche la “tutela e la sicurezza del lavoro”. Anzi, se da un lato le ordinanze regionali aderiscono ai contenuti della Carta Costituzionale, dall'altro adottano misure pienamente coerenti con le Linee di indirizzo per la protezione dei lavoratori dal calore e dalla radiazione solare, adottate dalla Conferenza Stato-Regioni il 19 giugno scorso.
Leggendo i vari testi e le misure adottate con riferimento a quest'anno - al confronto con quelle dello scorso anno - i documenti regionali superano quell'approccio forse troppo rigido e improntato a un principio di “precauzione assoluta”, che si traduceva - in sostanza - nel fermo obbligatorio di alcune attività produttive, senza considerare la possibilità di adottare soluzioni preventive e alternative alla sospensione del lavoro.
A ben vedere, le nuove disposizioni riconoscono la possibilità di combinare la tutela della salute di chi lavora con il diritto alla libertà d'impresa, garantito anche dalla Costituzione (articolo 41), valorizzando il ruolo “intermediario” dei contratti collettivi. Quindi, non sorprende affatto che le Regioni abbiano riconosciuto alle parti sociali un margine di intervento regolatorio, ritenendole interlocutori maggiormente in grado di capire le concrete esigenze di aziende e lavoratori. Anzi, le ordinanze emesse nelle scorse settimane appaiono accomunate dalla volontà di elevare il ruolo della contrattazione collettiva nella gestione del rischio da shock termico, pur lasciando la porta aperta al ricorso precauzionale al blocco delle attività.
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