Quante volte ci siamo sentiti ripetere che lo studio associato è “LA” soluzione per sopravvivere in un mercato professionale sempre più competitivo? Quante volte abbiamo letto articoli o post sui social dove si indica la strada dell’aggregazione come l’unica possibile? Quante volte abbiamo osservato, magari con un po’ d’ansia, le difficoltà dei nostri studi individuali nel reggere l’urto di un mondo che chiede risposte immediate e competenze a tutto tondo?
Tutto molto bello, davvero, ma c’è un problema (forse anche più di uno), che frena l’evoluzione culturale e organizzativa del professionista italiano: trovare i soci giusti. Questo è quanto mi riportano spesso molti professionisti: “vorrei, ma non riesco a trovare le persone giuste”. Sembra semplice da risolvere, ma nella realtà non lo è affatto. Trovare dei soci – veri soci di cui fidarsi – non è come trovare un compagno per una serata al cinema o come assumere un collaboratore (già di per sé un’impresa difficile). Qui parliamo di veri e propri “matrimoni professionali”, di scelte importanti quanto quella di un partner nella vita personale. Una scelta che, proprio come nella vita privata, sarà tanto più felice quanto più i valori, le visioni e i progetti saranno condivisi.
Ed è qui che, come si suol dire, casca l’asino. Trovare colleghi con cui ci sia una vera convergenza valoriale non è cosa da poco. Vuol dire che dovrebbero condividere lo stesso progetto di sviluppo dello studio, avere uno stile relazionale simile al nostro, essere d’accordo sulle scelte fondamentali riguardanti l’organizzazione, gli investimenti, il tipo di clientela... e si potrebbe continuare per un bel pezzo. Il DNA del professionista italiano, ricordiamolo, è storicamente individualista. Siamo figli di una cultura in cui il professionista è sempre stato legato a un nome e a un volto, prima ancora che a una struttura o a un brand. Il “principe del foro”, il “notaio di fiducia”, il “commercialista storico”, il “consulente del lavoro in gamba”. Vi dice qualcosa? Sono figure che abitano il nostro immaginario collettivo da decenni, legate a una persona specifica, non a un team.
Solo negli ultimi anni la prospettiva ha iniziato a cambiare e si è cominciato a parlare di studi come imprese, di branding professionale, di organizzazione strutturata. Ma, sapete com’è, cambiare cultura è molto più difficile che cambiare abitudini. È come imparare una nuova lingua da adulti: si può fare, certo, ma richiede impegno, costanza e una buona dose di umiltà. E così, anche quando ci si associa, il rischio è di continuare a lavorare come tanti professionisti singoli sotto lo stesso tetto. Vi è mai capitato di entrare in uno “studio associato” dove in realtà ogni socio ha i suoi clienti, le sue pratiche, i suoi orari, e l’unica cosa davvero condivisa è la macchina del caffè? Ecco, quello non è uno studio associato, è una coabitazione professionale.
A complicare ulteriormente le cose c’è la carenza di competenze manageriali tra i professionisti. All’Università ci insegnano diritto, economia, materie tecniche di varia natura... ma quando mai ci hanno spiegato come si gestisce una struttura complessa? Quando ci hanno parlato di leadership, organizzazione, comunicazione interna? Mai, o quasi mai. E senza queste competenze, gestire uno studio associato diventa come guidare una Ferrari senza aver mai preso la patente: prima o poi iniziano i problemi e si rischia di andare fuori strada, oppure di viaggiare con la stessa marcia per tutto il tempo. Si naviga a vista, si improvvisa, si reagisce agli eventi invece di anticiparli. E questo porta spesso a conflitti, incomprensioni, divergenze strategiche che fanno implodere il progetto comune.
Non dimentichiamo poi le sfide relazionali. Un conto è essere bravi professionisti, un altro è sapersi relazionare, saper gestire i conflitti, saper negoziare. In uno studio associato le decisioni devono essere prese insieme, i problemi vanno affrontati collettivamente, le strategie condivise. E questo richiede tempo, pazienza, disponibilità al confronto. Elementi che, in un mondo professionale sempre più frenetico, diventano merce rara, quasi di lusso.
Esiste una soluzione a questo problema? Probabilmente non esiste una soluzione unica, ma si condividono qui alcune indicazioni che potrebbero essere utili.
Prima di tutto, investite sulle competenze manageriali. Sì, lo so, avete studiato anni per diventare bravi professionisti e ora vi si dice di studiare altro. Ma fidatevi: prima di associarvi, acquisire competenze di leadership e management è fondamentale. È come prepararsi adeguatamente prima di un viaggio importante.
Definite con chiarezza valori e visione. Condividete fin da subito quali sono i vostri valori non negoziabili, quale la visione di studio, gli obiettivi di lungo periodo. È come in una relazione sentimentale: meglio chiarirsi subito su cosa ci si aspetta, piuttosto che scoprire incompatibilità dopo anni.
Create un patto associativo dettagliato. Non limitatevi agli aspetti economici, ma definite anche quelli organizzativi, decisionali, relazionali. Pensate a quante coppie si lasciano per questioni pratiche mai chiarite all’inizio!
Prevedete percorsi graduali di associazione. Prima di un “matrimonio” definitivo, può essere utile un periodo di “fidanzamento professionale”, una collaborazione strutturata per verificare la compatibilità. In fondo, nessuno si sposerebbe dopo il primo appuntamento, no?
Rivolgetevi a consulenti specializzati. Figure come coach e consulenti organizzativi possono facilitare il percorso di associazione, aiutando a superare ostacoli e incomprensioni. Sono come i consulenti familiari, ma per le relazioni professionali.
Nonostante le difficoltà, l’evoluzione verso modelli associativi più strutturati appare inevitabile. Il mercato richiede competenze sempre più specialistiche e, al contempo, approcci interdisciplinari. I clienti cercano studi che possano offrire soluzioni complete, non singoli professionisti in competizione tra loro. Il futuro delle professioni è nelle strutture organizzate, negli studi-impresa capaci di competere sul mercato globale. Ma per arrivarci è necessario un profondo cambiamento culturale, che parta dall’Università e arrivi alla formazione continua dei professionisti. Solo così potremo superare quel problema di fondo che frena l’evoluzione verso modelli associativi più maturi: la difficoltà di trovare soci con cui condividere davvero un progetto professionale e di vita. Perché, in fondo, come diceva Halford E. Luccock, “nessuno può fischiettare una sinfonia. Ci vuole un’intera orchestra per suonarla”.