La recente punizione (sospensione, licenziamento, non è chiaro) di due stagisti di una nota emittente televisiva sportiva nazionale, “colpevoli” di avere esultato per il gol-vittoria della propria squadra del cuore, mi ha spinto a qualche riflessione più ampia sull’istituto del tirocinio o stage che dir si voglia. Siamo certi che nel nostro Paese sia chiaro lo scopo e le modalità con cui le imprese approcciano il tema?
Concepito come uno strumento di “politica attiva”, fondamentale per la transizione dalla formazione all’impiego, il tirocinio non ha mai mancato di fare discutere. Da un lato, le statistiche ufficiali ne difendono l’utilità come trampolino di lancio; dall’altro, la cronaca ne espone spesso le “ombre”: un lavoro mascherato, una bassa retribuzione e, nei casi più tragici, un deficit di sicurezza.
Per cercare una chiave di lettura del fenomeno, è essenziale in primis distinguere le due macro-categorie di tirocinio, normate in modo differente:
Tirocinio curriculare: svolto durante un percorso di studi (scuola superiore, università, master, istituti di formazione). Il suo obiettivo primario è il completamento del ciclo formativo, spesso tramite l’acquisizione di Crediti Formativi Universitari (CFU). Rientrano in questa categoria anche i PCTO (Percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento, l’ex “alternanza scuola-lavoro”). Non viene prevista un’indennità economica obbligatoria.
Tirocinio extracurriculare: rivolto a chi ha concluso o interrotto un percorso di studi (generalmente attivabile entro 12 mesi dal conseguimento del titolo) o a soggetti in stato di disoccupazione (tirocini di inserimento/reinserimento). Questi sono normati dalle Regioni (sulla base dell’Accordo Stato-Regioni) e hanno regole più stringenti: durata massima definita (solitamente 12 mesi), obbligo di un Progetto Formativo Individuale (PFI), un’indennità minima di partecipazione obbligatoria ed un limite al numero utilizzabile dalle aziende sulla base del numero complessivo dei dipendenti.
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