Assumere o non assumere: questo è il dilemma.
Sembra una battuta da commedia, e invece è una tragedia quotidiana.
Nelle microimprese italiane — e nei piccoli studi professionali — è una domanda che tiene svegli la notte, molto più di qualsiasi fattura elettronica o scadenza fiscale.
C’è un momento preciso in cui tutto comincia: il telefono che squilla più spesso, le email che aumentano, i clienti che incalzano, e quella sensazione di non riuscire più a stare dietro a tutto.
Il titolare lo sa, lo sente, ma si racconta che “per ora regge”.
Poi arriva il venerdì sera, e la scrivania è ancora piena.
E allora il pensiero si fa spazio: mi servirebbe un’altra persona.
È lì che nasce il dilemma.
Non tanto economico — perché spesso i conti si potrebbero anche far quadrare — ma psicologico.
Perché assumere, per una microimpresa, non è un passo: è un salto nel buio.
E nel buio, in Italia, non c’è mai la rete di protezione.
La paura non è immaginaria.
Chi ha già un dipendente sa bene che ogni nuova assunzione è un impegno a tempo indefinito: più tasse, più responsabilità, più incognite.
E se le cose vanno male, tornare indietro non è affatto semplice.
Nel frattempo, le tutele del lavoratore — giuste nella loro logica — diventano, in certe situazioni, una barriera di fatto all’espansione.
Così si resta fermi.
L’imprenditore si adatta, allunga le giornate, riduce le pause, fa lui quello che non riesce più a delegare.
Finché può.
Il problema è che questa immobilità ha un prezzo.
Un prezzo silenzioso ma altissimo: stress, stagnazione, occasioni perse.
La piccola azienda che avrebbe potuto crescere rimane uguale a sé stessa, e dopo un po’ comincia perfino a regredire.
Il titolare non riesce più a innovare, perché tutto il tempo lo consuma nella gestione.
La qualità del servizio cala, e anche la motivazione inizia a scivolare: troppo carico, troppo sotto pressione, troppo solo.
E così, giorno dopo giorno, si forma la trappola perfetta.
Una gabbia fatta di buone ragioni e cattive paure.
L’imprenditore non assume perché ha paura di sbagliare; ma, paradossalmente, proprio non assumendo finisce per sbagliare.
E intorno a lui, un intero sistema resta congelato: i giovani non entrano, le imprese non crescono, i territori non si rinnovano.
Una stagnazione invisibile, fatta di decisioni rinviate e potenzialità sprecate.
Non è solo una questione di burocrazia o di costo del lavoro.
È, prima di tutto, un problema culturale.
In Italia il piccolo imprenditore è trattato come un gigante, ma con le armi di un nano.
Ha gli stessi obblighi di un’azienda strutturata, ma non la stessa forza, né economica né organizzativa.
E quando il sistema pretende da lui la stessa elasticità, la stessa capacità di pianificazione, la stessa resistenza ai rischi, non tiene conto che dietro quella partita IVA c’è spesso una persona sola, che la sera torna a casa col pensiero fisso: e se domani non ce la faccio?
Eppure, nonostante tutto, qualcuno ci prova.
C’è chi decide di rischiare, di assumere comunque.
Di credere che un secondo dipendente possa diventare un investimento e non una zavorra.
A volte va bene: il nuovo arrivato alleggerisce il carico, porta idee, fa respirare l’azienda.
Altre volte va male: i costi salgono, la produttività no, e il sogno di crescere si trasforma in un incubo di carte e contributi.
È la roulette del microimprenditore italiano: ogni decisione pesa più di quanto dovrebbe.
Forse la soluzione non sta nel coraggio individuale, ma nel cambiare le regole del gioco.
Permettere alle microimprese di sperimentare formule più flessibili, percorsi di inserimento graduali, rapporti che non siano immediatamente blindati.
Serve un sistema che consenta di crescere “per tentativi”, come succede in altri Paesi, dove l’errore non è un crimine ma un passaggio.
Perché non si può chiedere alle imprese di rischiare tutto, ogni volta che vogliono fare un passo avanti.
Assumere o non assumere, allora, resta un dubbio amletico, ma non dovrebbe esserlo.
La crescita non dovrebbe essere un atto di fede.
Dovrebbe essere un processo sostenibile, reversibile, accompagnato da strumenti che aiutino — non che puniscano — chi prova ad ampliare la propria realtà.
Il problema non è la paura: la paura è naturale.
Il problema è un sistema che la rende razionale.
E così, ogni giorno, migliaia di piccoli imprenditori italiani si ritrovano davanti allo stesso bivio.
Alcuni restano fermi. Altri si buttano.
Ma tutti, in fondo, si fanno la stessa domanda:
“E se poi mi pento?”
Forse è da lì che dovremmo ripartire.
Dal diritto di sbagliare.
Perché senza la libertà di sbagliare, nessuno avrà mai il coraggio di crescere.


