Assegno divorzile compensativo e fiscalità: una questione aperta tra diritto civile e tributario
di Simona Baseggio e Barbara Marini
Sappiamo tutti – o crediamo di sapere – che l’assegno divorzile periodico disposto dal giudice in favore di un ex coniuge, nella misura in cui non è destinato al mantenimento dei figli, è tassabile in capo al percettore (art. 50, comma 1, lett. i) del Tuir) e simmetricamente deducibile dal soggetto obbligato (art. 10, comma 1, lett. c). La previsione normativa appare cristallina e consolidata da una prassi amministrativa altrettanto rigorosa. Ma un’attenta lettura della giurisprudenza civile maturata negli ultimi anni, e in particolare delle pronunce delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, induce a interrogarsi se – al verificarsi di determinate condizioni – tale certezza dogmatica sia davvero indiscutibile.
Dal 2018 al 2024, la Suprema Corte ha tracciato un’evoluzione concettuale dell’assegno divorzile, che ha inciso profondamente sulla sua natura, anche se (almeno sinora) senza effetti immediati sul piano fiscale. Il punto di svolta è rappresentato dalla sentenza n. 18287 del 2018, con cui le Sezioni Unite hanno abbandonato la logica del mantenimento ancorato al tenore di vita matrimoniale, affermando che l’assegno post-divorzio non ha una funzione meramente assistenziale, ma assolve anche a un ruolo compensativo e perequativo. In tale prospettiva, l’assegno riconosce il contributo dato dal coniuge economicamente più debole alla vita familiare, non solo in termini materiali, ma anche in termini di sacrifici e rinunce personali, specie di natura professionale, spesso difficilmente misurabili ma non per questo irrilevanti.



