Assegnazione agevolate, i nodi da risolvere (e che cerchiamo di chiarire)
di Luigi Lovecchio
Con l’avvicinarsi della scadenza di fine mese, si ripropongono gli ultimi dubbi operativi in materia di assegnazioni, cessioni e trasformazioni agevolate. La riedizione della disciplina di legge, operata con la legge di bilancio 2025 (articolo 1, commi 31 e seguenti, legge n. 207/2024), non è stata peraltro accompagnata dall’emanazione di nuove istruzioni dell’Agenzia delle Entrate che restano ferme, pertanto, ai documenti di prassi emanati nel corso del 2016 – salvo alcuni aggiornamenti rappresentati dalle risposte a interpello – ovverossia a quasi 10 anni fa.
Per le assegnazioni agevolate, il principale punto critico è rappresentato dal valore da attribuire ai beni assegnati. La soluzione di tale questione interpretativa, infatti, può a sua volta determinare l’accesso o al contrario una causa ostativa all’accesso ai benefici di legge.
In proposito, l’Agenzia delle Entrate (circolare n. 37/E/2016) ha affermato che il contribuente può liberamente determinare il valore di assegnazione, purché nel rispetto dei principi contabili.
In assenza di indicazioni specifiche dello standard setter nazionale, qualche spunto utile sembra potersi ricavare dall’OIC 19, in materia di trattamento contabile dei debiti. Si legge in particolare al punto 77 che: “I debiti consistenti nell’obbligazione di consegnare beni o servizi originati da permute sono esposti al valore di mercato di tali beni o servizi”. In sostanza, dunque, un debito in natura deve essere rappresentato al valore corrente del bene che deve essere ceduto. Si tratta di una situazione, come è agevole riscontrare, non molto diversa da quella che si verifica nell’assegnazione agevolata, laddove, alla delibera di distribuzione di riserve, consegue il sorgere di un debito verso i soci da estinguere attraverso il trasferimento del bene immobile.
Ne deriva che il comportamento che appare maggiormente rispondente alle indicazioni ricavabili dai principi contabili, seppure non ancora espresse in forma specifica, sembra essere la valorizzazione a valore di mercato. Al riguardo, si è tuttavia dell’opinione che, in presenza di una normativa di legge speciale, dovrebbe essere ammesso determinare il valore di mercato in misura pari al valore catastale anche ai fini contabili.
La quantificazione del valore contabile da attribuire ai beni agevolabili ha la funzione di accertare se vi sono riserve di patrimonio netto sufficienti a consentire l’assegnazione agevolata. Come precisato nei documenti di prassi, infatti, la sussistenza di riserve capienti rappresenta un pre requisito per accedere alla disciplina di esame, in difetto del quale i vantaggi fiscali verrebbero senz’altro disconosciuti. Nonostante il parere contrario del notariato, peraltro non condivisibile, la prassi amministrativa ammette la facoltà di abbattere il valore delle riserve da utilizzare attraverso l’accollo di un debito sociale, da parte del socio.
La normativa di riferimento prevede che la società sia libera di scegliere quali riserve utilizzare, con effetti diversi, nel caso delle società di capitali, a seconda che si tratti di riserve di capitale o di utile. Nel primo caso, l’effetto dell’assegnazione è la riduzione del costo fiscalmente riconosciuto alla quota di partecipazione del socio in misura pari al valore utilizzato ai fini del pagamento dell’imposta sostitutiva dell’8 per cento. Si ricorda ancora che, a tale scopo, il costo fiscalmente riconosciuto della quota deve essere previamente incrementato dell’importo dell’imponibile dell’imposta sostitutiva. Se il costo così determinato risulta capiente rispetto al valore attribuito al bene assegnato, non vi saranno esborsi immediati a carico del socio assegnatario. In caso invece di valore del bene maggiore del costo fiscalmente riconosciuto, si verifica il cd “sotto zero” che comporta l’insorgenza di un reddito di capitale per la differenza tra i due importi.
Se le riserve utilizzate sono invece di utili, sempre nel caso delle società di capitali, allora l’importo corrispondente al costo fiscalmente riconosciuto del bene assegnato deve essere assoggettato alla ritenuta d’imposta del 26 per cento. Al contrario, la tassazione della porzione di riserva corrispondente al maggior valore attribuito al bene, rispetto al costo fiscalmente riconosciuto, è assorbita, anche con riguardo alla fiscalità del socio, dall’imposta sostitutiva dell’8 per cento.
L’opportunità in esame appare particolarmente conveniente in presenza di utili la cui distribuzione sia già stata deliberata. In questa eventualità, infatti, i soci sono già preparati a subire la ritenuta d’imposta del 26 per cento sull’intero importo degli utili e quindi la possibilità di decurtare in modo sensibile il prelievo si prospetta particolarmente interessante. In proposito, si è dell’opinione che l’operazione sia pienamente legittima, in quanto si traduce nel fruire di una facoltà successivamente – rispetto all’adozione della delibera di distribuzione - introdotta nell’ordinamento e dunque non presenta profili elusivi. Potrebbe essere in tal caso utile adottare una ulteriore delibera di assemblea ordinaria che sancisca la decisione di attuare la delibera a mezzo assegnazioni in natura.
Tanto, senza dimenticare tuttavia gli aspetti Iva dell’operazione di assegnazione, che restano regolati dalla disciplina ordinaria.
Da ultimo, un cenno alle trasformazioni agevolate. In questo caso, i parametri da considerare, in aggiunta al costo dell’imposta sostitutiva, sono in particolare:
a) l’entità delle riserve della società trasformanda, se società di capitali, che vengono assoggettate immediatamente a tassazione e per intero, nello stesso esercizio di trasformazione;
b) la circostanza che la società semplice non può dedurre costi dal reddito conseguito (si pensi ad esempio all’Imu);
c) la prospettiva di cessione degli immobili.
Se si prevede che nel breve o medio termine la cessione è probabile, l’opportunità della trasformazione diventa imperdibile, perché per gli immobili posseduti da oltre 5 anni l’imposizione viene del tutto azzerata.