ARTICOLO 1 DELLA COSTITUZIONE: QUANDO LA REPUBBLICA TROVÒ IL LAVORO - Dialogo (immaginario) tra Fanfani e Togliatti alla buvette di Montecitorio, marzo 1947
di Stefano Ricca
Ci sono momenti nella storia in cui il futuro si decide tra un caffè e una sigaretta. Marzo 1947, Montecitorio. La Costituente è in pieno lavoro e l’articolo 1 sta diventando un problema serio. L’aula è sospesa, i costituenti si sono ritirati nella buvette, quel caffè all’interno del palazzo dove le distanze ideologiche si accorciano davanti a una tazzina.
Due uomini si siedono allo stesso tavolino. Amintore Fanfani, democristiano, trentanove anni, professore di storia economica, carattere ruvido da toscano testardo. Palmiro Togliatti, comunista, cinquantaquattro anni, dialettico sopraffino, stile austero da intellettuale torinese. Mondi opposti che devono trovare un punto di incontro.
Togliatti accende una sigaretta, guarda Fanfani con quello sguardo da intellettuale che ha visto troppe cose. “Allora, professore. La mia proposta è chiara: Repubblica democratica di lavoratori. È la sostanza delle cose. È quello che siamo diventati dopo la Resistenza. Il popolo che ha combattuto il fascismo era fatto di lavoratori, di partigiani che venivano dalle fabbriche, dai campi. Loro hanno liberato questo paese.”
Fanfani non beve il caffè, tiene la tazzina in mano, sospesa tra lui e l’interlocutore. È uno che alle riunioni fa sedute fiume, resiste ore pur di vincere. E ora vuole vincere anche questa. “Onorevole Togliatti, la sua formula è troppo stretta. Repubblica di lavoratori significa escludere chi lavora ma non è lavoratore dipendente”.
Togliatti tira una boccata. Sorride appena, quel sorriso da chi ha già fatto questa discussione mille volte, in mille varianti, in mille lingue diverse. “Professore, quando dico lavoratori intendo lavoratori del braccio e della mente. L’ho già chiarito in commissione. Non è una questione di muscoli o di colletti bianchi. È una questione di chi produce il valore in questo paese. E chi lo produce sono i lavoratori, non chi vive di rendita.”
Fanfani posa la tazzina con un gesto secco. Ha studiato storia economica, ha scritto su cattolicesimo e capitalismo, sa di cosa parla. “Ma è proprio lì il punto, onorevole. Lei dice chi produce. Bene. E chi organizza quella produzione? Chi investe i soldi per comprare i macchinari? Chi si prende il rischio d’impresa? Anche quello è lavoro. Forse non suda come l’operaio alla catena di montaggio, ma è lavoro lo stesso. E se noi scriviamo Repubblica di lavoratori, diamo l’impressione che esista un solo tipo di lavoro degno di questo nome.”
Togliatti riflette. Sta facendo quello che fa sempre: partire dalla realtà, non dai desideri. La realtà dice che la DC ha preso il 35% alle elezioni, il PCI il 19%. La realtà dice che serve una Costituzione che tenga, non che divida. La realtà dice che tra dieci anni, vent’anni, cinquant’anni, quella frase dovrà stare in piedi. “Lei è cattolico, io sono comunista. Lei pensa al bene comune attraverso la dottrina sociale della Chiesa, io attraverso il materialismo storico. Ma entrambi sappiamo che questa Costituzione deve durare. E una formula che esclude metà paese non dura.”
Fanfani annuisce. Per la prima volta da quando sono seduti, c’è un punto di contatto. Poi attacca convinto, guardando Togliatti dritto negli occhi: “Fondata sul lavoro. Questa è la formula che propongo. Non dice di chi è il lavoro, dice che la Repubblica si regge sul lavoro. Di tutti. Del bracciante, dell’operaio, dell’impiegato, sì, ma anche di chi organizza quel lavoro, di chi rischia il capitale per crearlo. Non è una Repubblica di padroni, ma neanche di soli lavoratori dipendenti.”
Togliatti fa un gesto con la mano, quel gesto che conosce bene chi lo ha visto in aula: significa ci siamo. “Di fronte all’alternativa che si presenta, devo dire che questa formula, collega Fanfani, è quella che più si avvicina a ciò che avevamo proposto. Per la sostanza, Repubblica fondata sul lavoro si riferisce a un fatto di ordine sociale, e quindi è la più profonda. Non parliamo di chi lavora, parliamo della base materiale su cui si regge la democrazia.” Poi aggiunge, quasi come se stesse pensando ad alta voce: “Perché vede, professore, non è che la Repubblica è democratica e poi, per caso, è anche fondata sul lavoro. È democratica proprio perché fondata sul lavoro. Il lavoro è ciò che rende effettiva la democrazia, che dà a ciascuno dignità di cittadino.”
Fanfani lo guarda in silenzio per qualche secondo. Sta già scrivendo nella sua testa. “Esattamente, onorevole Togliatti. È più profonda perché non divide. Unisce. E una Repubblica si fonda unendo, non dividendo.”
Il dialogo è finito. Tra poche ore, il 22 marzo 1947, l’Assemblea voterà. L’emendamento Fanfani passerà con il voto favorevole del partito comunista. I giornali del giorno dopo saranno pieni: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”.
Quella virgola che Fanfani aveva messo tra “democratica” e “fondata” non era casuale. Era il segno di quella conversazione alla buvette. Non separava due concetti, li legava. Diceva: è democratica in quanto fondata sul lavoro. Un tocco di classe che avrebbe contenuto un mondo.
Settantott’anni dopo, quella immaginaria discussione alla buvette ci interroga ancora.
L’intelligenza artificiale comincia a produrre valore senza sudore, senza muscoli, senza presenza fisica. Le macchine generano ricchezza che una volta generavano solo gli esseri umani. E quella discussione dovrebbe tornare prepotente, con una nuova domanda: su cosa si fonda una Repubblica quando il lavoro non è più quello che era?
Loro trovarono una parola (e una “virgola”) che tenesse insieme operai e imprenditori, braccianti e professionisti. Noi dobbiamo trovare una risposta che tenga insieme umani e macchine. E non sarà una questione di aliquote o di contributi automazione. Sarà una questione di ideali. Di visione.
Perché loro non stavano scrivendo regole. Stavano scrivendo il senso di un paese. E quel senso, oggi, va ripensato. Serve un nuovo tavolino alla buvette. Servono persone disposte a discutere davvero. Con la consapevolezza che da quella discussione può uscire il futuro di una Repubblica.
Togliatti e Fanfani ce l’hanno insegnato: le parole contano. E anche le virgole. Soprattutto quando disegnano il mondo che verrà.


