"Archivi della coscienza" - SPECCHI DIGITALI – Racconti e riflessioni sull’umanità riflessa nelle sue macchine. Archivi della coscienza
di Gabriele Silva
C’è stato un tempo in cui dimenticare era una forma di salvezza.
Oggi, nel lavoro come nella vita, sembra diventato un difetto.
Nel primo ciclo di Black Mirror, l’episodio The Entire History of You immagina un mondo in cui ogni persona possiede un impianto neurale – il “grain” – capace di registrare tutto ciò che vede e sente. Ogni conversazione, ogni sguardo, ogni esitazione può essere rivista, rallentata, analizzata. La memoria non è più fragile, selettiva, imperfetta. È un archivio. E come ogni archivio, può essere interrogato, usato, piegato.
All’inizio sembra una conquista. Niente più dubbi, niente più “non ricordo”, niente più ambiguità. Ma presto emerge il prezzo: quando tutto è registrabile, nulla è più innocente. Nemmeno il passato.
Nel lavoro contemporaneo stiamo andando esattamente in quella direzione.
E-mail salvate per anni.
Chat aziendali mai cancellate.
Call registrate “per sicurezza”.
Dashboard che tracciano tempi di risposta, toni di voce, livelli di partecipazione.
Non è più solo una questione di controllo della produttività. È una forma di sorveglianza emotiva.
Ogni interazione diventa potenzialmente una prova.
Ogni parola può essere riascoltata.
Ogni esitazione reinterpretata.
E così impariamo a lavorare come se fossimo sempre osservati. Anche quando nessuno guarda.
Nell’episodio di Black Mirror, il protagonista rivede ossessivamente frammenti del passato, cercando conferme, segnali, incoerenze. La tecnologia non gli offre chiarezza, ma amplifica l’ansia. Più dati ha, meno riesce a fidarsi. Più memoria possiede, meno riesce a vivere il presente.
Nel lavoro accade lo stesso.
Rivediamo vecchie mail per “tutelarci”.
Recuperiamo chat per dimostrare che avevamo ragione.
Costruiamo narrazioni retroattive per giustificare decisioni, errori, ritardi.
La memoria non serve più a imparare. Serve a difendersi.
Il paradosso è evidente: strumenti nati per garantire trasparenza finiscono per erodere la fiducia.
Se tutto è registrato, allora tutto può essere usato contro di noi.
E quando la fiducia scompare, resta solo la performance.
Scriviamo come se fossimo già in giudizio.
Parliamo come se qualcuno stesse prendendo appunti.
Lavoriamo non per collaborare, ma per lasciare tracce “corrette”.
Il lavoro diventa un processo forense continuo.
Black Mirror non critica la tecnologia in sé. Critica l’illusione che la memoria perfetta renda migliori.
Perché l’essere umano non è fatto per ricordare tutto. È fatto per selezionare, per reinterpretare, per dimenticare.
Dimenticare un errore permette di andare avanti.
Dimenticare una tensione consente di ricostruire una relazione.
Dimenticare un momento sbagliato restituisce spazio al cambiamento.
Un lavoro che non dimentica è un lavoro che non perdona.
Oggi si parla molto di “storico”, di “tracciabilità”, di “accountability”. Tutti concetti legittimi.
Ma raramente ci chiediamo cosa succede quando la memoria diventa più importante dell’esperienza.
Quando l’archivio conta più del contesto.
Quando ciò che è stato pesa più di ciò che potrebbe essere.
Nel mondo di The Entire History of You, la tecnologia non mente.
Ma nemmeno comprende.
Ed è forse questa la lezione più scomoda:
una memoria totale non rende il lavoro più umano.
Lo rende più rigido. Più ansioso. Più fragile.
Forse il futuro del lavoro non ha bisogno di ricordare tutto.
Ha bisogno di scegliere cosa vale la pena ricordare.
E soprattutto, cosa è necessario lasciare andare.


