Nel sistema dell’imposta sul valore aggiunto, il principio di antieconomicità non trova cittadinanza. Lo impongono, con chiarezza, le coordinate normative e giurisprudenziali sia interne sia sovranazionali, che ancorano la determinazione della base imponibile esclusivamente al corrispettivo pattuito tra le parti.
Secondo l’articolo 13, comma 1, del Dpr 633/1972, la base imponibile IVA è rappresentata dal corrispettivo pattuito “secondo le condizioni contrattuali”. Si tratta di un principio cardine, perfettamente coerente con quanto stabilito dall’articolo 73 della Direttiva 2006/112/CE, che impone di considerare “tutto ciò che costituisce il corrispettivo” versato o da versare al fornitore, nella sua reale consistenza.
La Corte di Giustizia UE ha ribadito in più occasioni che la determinazione della base imponibile deve ancorarsi al valore soggettivo dell’operazione, ovvero al prezzo effettivamente pattuito, escludendo qualsiasi meccanismo di rettifica in funzione di un ipotetico “valore normale” (CGUE, 7 novembre 2013, cause riunite C-249/12 e C-250/12). In questa prospettiva si colloca anche l’esclusione della rilevanza IVA delle rettifiche da transfer pricing (CGUE, 9 giugno 2011, causa C-285/10).
Una simile impostazione si oppone frontalmente a ogni tentativo di estendere al comparto IVA la nozione di antieconomicità elaborata in ambito di imposte dirette. L’imprenditore, in ambito IVA, non manifesta alcuna capacità contributiva: agisce piuttosto come collettore dell’imposta per conto dell’Erario. L’unico vero soggetto inciso è il consumatore finale.
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