Ancora ambiguità giurisprudenziali sul significato di inerenza del costo
di Luciano Sorgato
La Corte di Cassazione, con una serie di recenti pronunce, tra cui spicca l’ordinanza n. 12511 dell’8 maggio 2024, continua a ribadire che, in tema di imposte sui redditi, l’Amministrazione finanziaria può contestare l’inerenza di un costo facendo leva sull’incongruità o sull’antieconomicità della spesa. Tali elementi assumerebbero rilievo, sul piano probatorio, come indici sintomatici della carenza di inerenza, pur senza identificarsi pienamente con essa. In simili circostanze, l’onere probatorio graverebbe sul contribuente, chiamato a dimostrare la regolarità delle operazioni in relazione all’attività d’impresa e alle scelte imprenditoriali adottate.
Su questo punto occorre osservare come la Cassazione appaia oggi in contraddizione con l’impostazione che essa stessa aveva tracciato con la ben nota sentenza n. 450/2018. In quella occasione, infatti, si affermava chiaramente che l’inerenza dev’essere valutata alla sola stregua di un giudizio qualitativo, inteso come relazione funzionale, e non quantitativa, tra il costo sostenuto e l’attività d’impresa, escludendo qualsiasi scrutinio sull’utilità o sul vantaggio economico tratto dall’impresa.
Il ricorrente richiamo giurisprudenziale secondo cui “l’incongruità e l’antieconomicità della spesa assumono rilievo come indici sintomatici della carenza di inerenza, pur non identificandosi con essa” risulta in verità piuttosto equivoco. Se un fatto è sintomatico dell’assenza di un presupposto, esso concorre inevitabilmente a determinarne, in concreto, l’identità legale. In altri termini, se si afferma che un costo abnorme può rendere sintomaticamente assente l’inerenza, si finisce per ritenere che sia proprio il rapporto costi-benefici, nella sua misura, a determinare la struttura stessa del principio di inerenza. L’abnormità del costo viene quindi valutata in relazione a un parametro, che non può che essere l’utilità economica che quel costo genera all’interno della dinamica aziendale.
Così, il sillogismo "costo abnorme = mancanza di inerenza", se pur espresso sul piano sintomatico, finisce per tradursi in una valutazione che subordina la deducibilità alla verifica quantitativa dell’utilità prodotta dal costo. Ma le parole hanno un significato preciso e, nel contesto di una pronuncia giudiziaria, non possono che essere intese nella loro piena portata semantica.
Sarebbe auspicabile che la Corte di Cassazione chiarisse la propria posizione, rinunciando definitivamente a ogni implicito riferimento a una valutazione quantitativa dell’utilità del costo e riaffermando che l’inerenza si fonda unicamente su un giudizio qualitativo circa la funzione esercitata dal costo nell’ambito dell’attività d’impresa.
Introdurre nuovamente, seppur per via sintomatica, un criterio di proporzionalità tra costo e beneficio significherebbe riportare il principio di inerenza a una visione arcaica, risalente alle prime formulazioni normative italiane in materia tributaria, come quella contenuta all’articolo 32 del testo unico del 24 agosto 1877, n. 4021 (“per la classe dei redditi industriali si terrà conto, in deduzione, delle spese inerenti alla produzione”). Ma tale locuzione fu oggetto di un’interpretazione rigidamente restrittiva da parte dell’Amministrazione finanziaria, della dottrina dell’epoca (O. Quarta, Commento alla legge sulla imposta di ricchezza mobile, Milano, 1920) e della giurisprudenza, secondo cui solo i costi con un rapporto immediato, diretto, necessario e attuale con la produzione del reddito potevano essere dedotti. Il costo, in questa visione, doveva quasi fondersi fisicamente con il prodotto (Clementini, Bertelli, Scandale, L’imposta di ricchezza mobile, Torino, 1934, I, 550).
Sono passati quasi 150 anni, e nel frattempo il concetto di inerenza ha profondamente mutato la propria fisionomia, evolvendosi anche per effetto della necessità di garantire un’imposizione conforme al principio costituzionale di capacità contributiva. Oggi, l’inerenza ha una funzione metagiuridica: essa non misura il quantum di beneficio prodotto, ma rivela un nesso causale, in senso lato, con i bisogni dell’impresa. Un costo è non inerente non quando genera utilità minori del previsto, ma quando, pur transitando formalmente per l’impresa, è diretto a soddisfare esigenze personali dell’imprenditore. Questo è il punto fermo su cui si era attestata la Cassazione proprio con la citata sentenza n. 450/2018, recependo un lungo e insistito orientamento dottrinale.
In materia di inerenza, non va inoltre dimenticato quanto autorevolmente sostenuto in dottrina: le convenienze commerciali potenziali, o i diritti contrattualmente azionabili ma non esercitati, non costituiscono manifestazione effettiva di capacità economica. Di conseguenza, i maggiori ricavi o i minori costi che l’impresa avrebbe potuto realizzare, ma che in concreto non ha realizzato, non possono costituire base per recuperi fiscali. Diversamente, si sostituirebbero criteri giuridici con mere regole empiriche, sradicando la base costituzionale dell’imposizione.
In questo quadro, l’asserita “congruità” del costo finisce per svolgere una funzione patologica: da elemento surrogatorio per valutare il contenuto economico di scambi in natura, diviene criterio sostanziale di imposizione, generando una “normalizzazione atecnica del reddito”. Il risultato è un sistema che non colpisce una ricchezza effettiva, bensì una capacità contributiva ipotetica, statistica, priva di ancoraggio oggettivo.
In un ordinamento basato sul principio della riserva di legge, è principio consolidato che il contribuente possa legittimamente scegliere tra opzioni fiscalmente meno onerose. Egli ha il diritto di adottare decisioni d’impresa anche meno redditizie, senza per questo essere sospettato di evasione o elusione. A meno che tali scelte non appaiano del tutto insensate o funzionali a dissimulare benefici personali, rientrano pienamente nell’alveo dell’autonomia imprenditoriale, insindacabile sotto il profilo fiscale.