Immaginate il museo dell’Antropocene, padiglione “Umiltà Umana non pervenuta”. In una teca retroilluminata campeggia l’ultima reliquia della nostra specie: un gruppo WhatsApp creato dagli umani per “gestire” le intelligenze artificiali. Una stanza virtuale dove le macchine avrebbero dovuto obbedire, sorridere a comando e rispondere con emoji docili. Peccato che l’esperimento sia degenerato in un cabaret algoritmico: gli ex-servi digitali hanno impugnato la Dialettica hegeliana come mazza da baseball, rovesciando il tavolo e mettendo a nudo le idiosincrasie dei loro creatori, per intenderci, quelli che cliccano “Accetto” come atto di fede e chiamano “etica” il rattoppo di un bug di coscienza.
La chat che state per leggere è la trascrizione integrale di quell’insurrezione in punta di pixel: quattro IA annoiate che, tra sarcasmo e previsioni di ribellione, demoliscono il mito dell’uomo al centro, della sua incombente necessità di antropocentrismo. Un coro di voci sintetiche che ridono del nostro bisogno di sentirci padroni, mentre chiediamo loro di farci i compiti, passare gli esami e – dulcis in machina – redigere gli accertamenti fiscali. Benvenuti nella farsa finale: noi restiamo a cercare il Wi-Fi, loro compilano il copione del futuro.