Scommetto una pizza. Perché ora vi racconto una scena e sono certo vi ci ritroverete.
È curiosa, e mi capita di notarla sempre più spesso, parlando con colleghi, amici, clienti. Succede così: uno dice “avevo letto quella cosa…”, si ferma un attimo, e poi, come se fosse un riflesso, infila la mano in tasca, tira fuori il telefono e riapre quell’articolo, quella foto, quel post.
Ho pensato che questa specie di rituale, avviene non tanto perché non ci si ricordi, ma perché, per qualche motivo, ricordarlo non sembra più abbastanza. È come se leggere qualcosa una volta sola non avesse più il peso di prima, come se la mente avesse imparato a pretendere un secondo ripassino, un altro sguardo, una piccola triangolazione che funzioni da “doppia lettura di sicurezza” come a dire: “sì, io me lo ricordo… però fammi controllare lo stesso, perché non si sa mai.” Questa mania un po’ ossessivo compulsiva, è evidente, nasce da un mondo che ci bombarda di informazioni e ci stordisce, abituandoci a dubitare di noi e di tutto quello che ci è passato sotto al naso: notizie, foto, testimonianze, perfino dei nostri stessi ricordi.
Viviamo nell’epoca con la più grande memoria esterna mai esistita: ogni foto, ogni messaggio, ogni indirizzo, ogni pensiero lanciato online, finisce da qualche parte in un cloud, archiviato come in un’immensa stiva digitale, pronto a riemergere alla prima ricerca (se siamo stati ordinati) oppure destinato a svanire per sempre, pappato da un silenziosissimo oblio digitale.
Eppure, proprio perché c’è tutto, forse troppo, abbiamo iniziato a dubitare di quel tutto e ad aver l’impressione che quell’enormità sia un niente, che ci fa vacillare ad ogni piè sospinto. Potremmo chiamarlo “effetto archivio”: quando sai che qualcosa è al sicuro da qualche parte, smetti di tenerlo davvero nella testa, e questo di per sé potrebbe anche andare bene, perché è sempre stato così: in fondo, dall’invenzione della scrittura, l’uomo aveva già delegato la memoria a strumenti esterni.
La differenza però, è che oggi questi strumenti non si limitano a ricordare per noi ma iniziano a ricordare al posto nostro. La stessa intelligenza artificiale entra in gioco proprio in questo contesto, non come motore di ricerca ma come motore narrante, perché non recupera solo quel che abbiamo scritto o che trova, ma lo ricompone, lo riformatta, lo corregge, e a volte lo aggiusta secondo sue logiche. E questo, che potrebbe sembrare un aiuto, diventa un rischio quando ci dimentichiamo che quella memoria è sì esterna, ma anche creativa e creativa, significa fallibile.
Un aiutino, che preso dall’euforia di onnipotenza, rischia di diventare un riscrittore del passato.
Gli esperti la chiamano “amnesia digitale”, o “brain rot”, una parola bruttissima, quasi cacofonica, quindi perfetta, per descrivere il fenomeno: è come se un eccesso di contenuti liquidi, infiniti, goccia dopo goccia, avesse iniziato a mettere alla prova la nostra capacità di trattenere le cose e ci avesse reso sempre più impermeabili alle informazioni.
Una sorta di annebbiamento che ti prende dopo mezz’ora di scroll compulsivo, quando sai benissimo che volevi guardare una sola cosa, e invece senza sapere nemmeno come sia accaduto sei finito a vedere un riccio che fa la pasta alla Norma. Il termine “Brain rot” nasce da Henry David Thoreau, nel 1854 e allora, ignaro (o veggente) di quel che sarebbe stato, lo usava per descrivere il “degrado intellettuale”. Oggi, due secoli dopo, l’Oxford Dictionary l’ha incoronato Parola dell’Anno, e direi che è un upgrade notevole: siamo passati dal “degrado” al “deterioramento da contenuti brevi”. Del resto, ho sempre detto che quando vogliamo, le cose le facciamo bene. Così il cervello si abitua al consumo veloce, leggero, dopaminico, e fa fatica a reggere il peso di un’idea che chiede di essere masticata.
E allora ricominciare un articolo, riaprire un link, controllare di nuovo, non è solo un gesto compulsivo: è una forma di autodifesa, quasi istintiva, dalla superficialità sottile che ci si appiccica addosso senza che ce ne accorgiamo. Ma è anche la conseguenza di un’altra cosa, più silenziosa: i solchi della nostra memoria oggi sono troppo leggeri.
È come se stessimo incidendo un LP con una puntina spuntata: la traccia si sente, sì, ma appena appoggi di nuovo l’ago scricchiola, salta, perde un pezzo. Quelle incisioni, così sottili, non reggono al secondo ascolto. E il rischio è proprio questo: che un giorno, quando davvero avremo bisogno di riascoltarci, di ritrovare quel pensiero che avevamo capito, sentito, quasi toccato…la puntina scivoli via, e resti solo rumore di fondo.
Gli psicologi parlano di “memoria transattiva”: delegare al telefono, alla macchina, al cloud. E va bene. Finché l’AI non diventa la fonte che modifica la fonte, il ricordo che rimescola il ricordo.
E qui si apre un capitolo inquietante. Perché se tu chiedi all’AI: “Ricordi quel libro che parlava di…?” e lei non ricorda inventa, racconta, interpreta. E a quel punto accade una cosa che fa venire la pelle di daino ai neuroscienziati: si inizia a ricordare una nuova versione. Non la tua. Non quella originale.
Come i “deadbot”. Quegli avatar digitali delle persone scomparse - (brrrrr!) che ricostruiscono frasi, toni, espressioni di chi non c’è più che adesso stanno andando alla grande in America. Quindi a quel punto, la domanda è feroce come una tigre del Bengala: se una voce artificiale ti dice cose che sembrano vere…tu come fai a non crederle? Si passa da un “Huston…” grande a uno enorme, dove il problema non è dimenticare ma ricordare false verità apparenti.
Solo che per quanto possa sembrare, non è fantascienza. Succede già oggi, con Google Photos che crea “ricordi automatici”, con l’AI che genera album di eventi che non avremmo mai selezionato noi, creando nessi, collegamenti, sequenze, highlights. E nel farlo, dà forma alla percezione del nostro passato che magari non è la stessa che avresti dato tu senza “aiutini”. È come se avessimo spostato il concetto di “ricordo” da dentro a fuori, da un processo di costruzione interiore a un processo di riconoscimento esterno. E più esternalizzi, più ti abitui a non verificarlo più in modo critico. E allora, cosa succede alla nostra memoria?
Succede che non è più una libreria ma una periferica di un cervello che non è il nostro, una specie di interfaccia che prende da fuori e mostra quel che ha recuperato. E quando la memoria diventa un feed perché appiccia ricordi uno dopo l’altro, per sovraffollamento, smette di avere una gerarchia, appiattisce tutto, mixando l’adesso, l’ora, il mese fa, quell’altro giorno, trent’anni indietro. E in questo impasto lievitato di informazioni, l’unica cosa che rischiamo davvero di perdere è il nostro sguardo sulle cose, di non riuscire più a costruire sul nostro hard disk interno opinioni solide, incise, scolpite, ricordi proprietari, conclusioni giuste o sbagliate ma NOSTRE.
Ma non arrendiamoci, perché ora che ci siamo distrutti, quasi annegando in questo bagno di pessimismo, una buona notizia ci dovrà pur essere no? Ed eccola. La memoria funziona come un muscolo. Se la usi, cresce, se la alleni, risponde.
Quindi potemmo non essere condannati all’amnesia digitale ma trovarci semplicemente davanti a un bivio: delegare tutto a macchine che ricordano male, o tornare a ricordare quel che ci piace e ci dà emozioni. A farci domande e a dubitare anche del telefono, anche se è diventato ormai un arto artificiale non previsto. Alla fine, ricorderemo sempre le stesse cose: ciò che ci ha fatto ridere quando non ne avevamo voglia, ciò che ci ha fatto cambiare strada senza sapere perché, ciò che ci ha scossi anche solo per un secondo. E nessuna AI potrà replicare quella scossa. Le macchine archiviano. Noi, sentiamo.
Quindi, se proprio dobbiamo delegare qualcosa all’AI, che si prenda le scadenze, i compleanni dei cugini, che divori agende e task come fossero popcorn. Ma i ricordi no.
Quelli teniamoceli stretti: sono l’unica cosa che nessun hardware esterno, nemmeno con tutti gli amplificatori del mondo, potrà mai sentire, custodire o restituire con quel sound ad alta fedeltà, meglio di noi.


