Chiudete gli occhi un attimo. Solo per un istante. Ora pensate a qual è stato il miglior maestro che avete avuto nella vita. No, non quello delle scuole elementari (o non per forza, intendo), ma a chi nel momento giusto vi ha insegnato qualcosa che non si trova nei libri. Bene, ora pensate a qual è stato l’insegnamento che vi ha regalato. Qualcosa che ancora oggi vi portate dentro, quella cosa che non ha scadenza perché, a distanza di tempo, ancora parla di lui. Vi stanno brillando gli occhi vero?
Se penso a un maestro, anche se è controintuitivo, probabilmente lo associo a qualcuno che non ha a che fare con i libri. A qualcuno che ti ha insegnato a leggere quel che non c’era. Il famoso “tra le righe” di cui tutti parlano ma che è così difficile afferrare.
C’è sempre una voce, una risata, o magari un rimprovero che ancora oggi risuona nella testa.
E sono certo lo abbiate anche voi. È quel qualcuno che non ci ha spiegato come si fa, ma ci ha fatto capire perché farlo. E allora è proprio il caso di dirlo…Signori e signore, venghino pure! Non servono titoli, bastano valori. Non cerchiamo coach, né formatori “ispirazionali” con microfono ad archetto e luci da Xfactor. Cerchiamo Maestri. Solo Maestri. Semplicemente, Maestri.
Ma con la M maiuscola. Di quelli che raccontano davvero, non che spiegano e basta. Che lasciano un segno. Sì, perché non so se ci avete fatto caso, ma oggi la parola maestro è sparita. Abbiamo coach, mentor, formatori, consulenti, esperti, guru. Sia chiaro, tutti ruoli bellissimi, per carità, ma nessun maestro. Sembriamo tutti in balia del fast food del sapere: corsi da un’ora, webinar lampo, tutorial da 90 secondi. La conoscenza sfornata calda come quelle fette di pane che schizzano fuori dal tostapane al “driiin!”, pronte all’uso, rigorosamente “consumabili” sul posto con quella percezione effimera di aver compreso tutto per il solo fatto di aver “ingollato” quei minuti spelacchiati, mentre magari si stava pure facendo altro. E se chiedessimo chi fosse la voce narrante di questo o quell’altro corso, probabilmente faremmo fatica a ricordare persino il volto. Figuriamoci se dovessimo indagare sul “peso specifico” dell’intervento. Quel che è certo è che una formazione così fast, alla lunga, e nemmeno tanto alla lunga, resta sullo stomaco.
Se però pensiamo alla parola maestro, la prima che verrebbe da associare probabilmente è insegnare. Invece no. O meglio, a me piace pensare che vada a braccetto con la parola educare.
Ora, la differenza sembra sottile, invece è molto spessa. “Insegnare” viene dal latino in-signare, cioè “mettere dentro”. È un gesto di riempimento: ti verso dentro conoscenza, regole, nozioni, modelli...e non so perché, ma mi ha sempre fatto pensare alle oche da foie gras: si prova a ingrassare la mente, ma non la si nutre davvero. “Educare”, invece, viene da ex-ducere, “tirar fuori”. È l’opposto: non ti riempio, ti accompagno a far emergere quello che già c’è, ma non sai ancora di avere. Ed è qui che un Maestro compie il suo ruolo: non mette dentro, libera, fa uscire, e anziché imporre, fa in modo che ti esponga al mondo, magari senza casco e gomitiere, consapevole che qualche sbucciatura potresti fartela. È per questo che ciò che ne deriva è qualcosa che richiede lentezza, non agisce di fretta, è roba da far sedimentare.
E questo rito magico richiede tempo, pazienza. Non si può imparare da chi ti dice sempre “bravo”.
Impari da chi ti spiazza, da chi ti smonta, da chi ti fa vedere il tuo errore e resta lì, accanto, finché non capisci cosa è girato storto perché il mestiere “plug and play” non esiste e se lo si impara in due click, è proprio la dimostrazione che non è un mestiere, o almeno smette di esserlo.
Forse è questo che manca oggi: la lentezza del gesto. Non sono un calciofilo, ma proprio in questi giorni mi è capitato di rivedere il video del riscaldamento di Maradona a Monaco, nel 1989, una danza sulle note di Live is Life degli Opus, prima della semifinale contro il Bayern. Se non lo avete ancora visto non perdetevelo, dico davvero. Palleggia con gli scarpini slacciati, lo sguardo leggero. Un momento che è diventato leggenda, chiaro, ma ogni volta che lo osservo mi colpisce per un’altra cosa: la lentezza. Quella calma che hanno solo i maestri, quando il gesto è così interiorizzato da sembrare naturale. E mi piace pensare che Maradona non si stava “scaldando” ma stava celebrando il mestiere. E che dietro quei tocchi c’erano migliaia di errori, tentativi falliti, giorni in cui la palla scappava via, proprio quelli che con il tempo si sono trasformati in arte.
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