A che punto siamo con l’intelligenza artificiale? Una mappa in sei profili
di Simona Baseggio
Chiedere a qualcuno – "Sai cos’è l’intelligenza artificiale? La usi?" – produce risposte molto diverse. I professionisti non fanno eccezione.
Eppure, osservando queste risposte, emerge un pattern ricorrente: si possono individuare sei profili, ordinati per livello di consapevolezza, esperienza e competenza nell’uso dell’AI.
Non è una classificazione scientifica, né definitiva.
È solo un modo per leggere meglio a che punto siamo oggi – e magari capire dove potremmo andare.
1. Gli inconsapevoli: nel 2023 erano molti. Oggi sono sempre meno, perché l’intelligenza artificiale è entrata nel dibattito pubblico e professionale. Gli inconsapevoli sono coloro che non l’hanno mai provata e non sentono l’esigenza di farlo, convinti che il tema non riguardi davvero il loro lavoro. Un atteggiamento destinato a ridursi, man mano che l’AI si infiltra – spesso silenziosamente – in strumenti e processi quotidiani.
2. Gli entusiasti: chi prova l’AI per la prima volta e ottiene una risposta brillante spesso si entusiasma. Molti credono di avere già capito come funziona e iniziano a usarla con sicurezza, sottovalutandone la complessità. È una fase affascinante, ma fragile: l’entusiasmo iniziale quasi mai dura a lungo, perché prima o poi arriva la delusione.
3. I delusi: prima o poi, quasi tutti si confrontano con una delusione. Chi approccia l’AI senza strumenti o aspettative realistiche, tende a fraintendere i limiti dello strumento. Spesso attribuisce all’AI “errori” che derivano in parte da come è stata usata, non solo da ciò che è in grado di fare. Nel 2023, molti abbandonavano subito, ironizzando su una “deficienza artificiale”. Oggi, la delusione può arrivare più tardi – e proprio per questo può essere più pericolosa. Chi si fida troppo presto rischia di usarla per compiti delicati senza avere maturato sufficiente consapevolezza. In fondo, molti delusi sono ancora inconsapevoli.
4. I consapevoli: il gruppo dei consapevoli è formato da chi ha superato la fase iniziale di entusiasmo e delusione, ed è arrivato a un uso magari saltuario, ma più, appunto, consapevole. Chi si trova a questo livello ha chiaro che l’AI può aiutare, e ne percepisce le potenzialità, ma sa bene che non va mai usata in modo acritico. Sa che ogni output va interpretato, verificato, contestualizzato. Sa che la qualità del prompt e dell’input in generale, determinerà la qualità dell’output. Sa che le possibilità sono tante e serve tempo per conoscerle. L’AI diventa uno strumento utile, ma sorvegliato. Un supporto veloce, ma non autonomo. È l’inizio di un rapporto professionale più stabile con la tecnologia.
5. Gli sperimentatori: alcuni consapevoli, spinti dalla curiosità e dalla ricerca di efficienza, diventano sperimentatori. Sono coloro che utilizzano l’AI in modo regolare, spesso quotidiano. Hanno ormai acquisito l’abitudine mentale di chiedersi costantemente come l’AI possa semplificare o migliorare il proprio lavoro. Per chi appartiene a questo gruppo, è normale domandarsi, ogni giorno:
“Cosa posso delegare alla macchina?”
“In cosa mi può far risparmiare tempo?”
“Ha senso investire ora per costruire qualcosa che mi agevolerà domani?”
Tassello dopo tassello, i processi si trasformano. Si testano strumenti, si condividono scoperte con colleghi, si integra l’AI nelle routine operative con naturalezza. È una fase di costruzione continua.
6. I tecnici: l’ultimo gradino è occupato dai tecnici. Non semplicemente utenti evoluti, ma persone con competenze informatiche avanzate. Sono in grado di integrare strumenti, progettare soluzioni, comprendere a fondo l’architettura che sta dietro a questi sistemi. Non è un livello necessario per tutti, ma sapere che esiste – e magari avere un punto di contatto con chi ne fa parte – può essere molto utile per orientarsi.
Conclusione: servono sperimentatori. Ovunque.
Non è indispensabile che ogni professionista diventi un esperto di intelligenza artificiale.
Ma in ogni studio dovrebbe esserci almeno una figura che si assuma il compito di esplorare, sperimentare, comprendere. Una figura che faccia da ponte tra la tradizione del mestiere e le potenzialità della tecnologia.
A ben vedere, ci permettiamo di fare un’affermazione che suonerà un po’ forte: ogni professionista – almeno in una fase della propria carriera – dovrebbe dedicare del tempo a questo ruolo.
È una proposta che farà storcere il naso a molti: due ore al giorno per tre mesi.
È facile immaginare la reazione di qualsiasi professionista: “Due ore? Impossibile! Non c’è tempo!”
Eppure è proprio questo l’investimento necessario per una vera trasformazione.
Solo tre mesi, non una vita. Un periodo limitato, ma sufficiente a sviluppare un approccio lucido, critico e produttivo all’intelligenza artificiale.
Chi lo affronta con costanza, anche partendo da zero, ne esce con una visione nuova del proprio lavoro.
Perché l’impatto è travolgente: cambia il modo di ragionare, di organizzare, di decidere.
E soprattutto, permette di scegliere con piena consapevolezza quanto spazio lasciare (e dove) all’AI nel proprio quotidiano.
Solo così sarà possibile contribuire a un dibattito più lucido, superare stereotipi, e parlare di AI non per sentito dire, ma per esperienza diretta.
Solo così si potrà costruire una cultura professionale capace di distinguere tra hype e valore reale.
L’intelligenza artificiale non sostituirà mai ciò che è autenticamente umano – la visione, l’intuizione, lo stile personale con cui ognuno interpreta il proprio ruolo.
Ma tutto ciò che è ripetitivo, replicabile, prevedibile… sì, quello potrà (e dovrà) essere delegato.
E imparare a farlo bene, oggi, non è più una tendenza da seguire.
È una responsabilità: per restare parte attiva nell’evoluzione più dirompente del XXI secolo.