40 euro per confondere tutti - Il nuovo “Bonus Mamme 2025” è solo l’ennesimo tassello di un sistema che non semplifica, ma disorienta
di Gabriele Silva
“Non è più welfare: è micro-ingegneria normativa.”
Come hanno riportato ieri su Blast S. Baseggio e B. Marini, nei giorni scorsi l’INPS ha pubblicato la circolare n. 139 del 28 ottobre 2025, che introduce il “nuovo Bonus Mamme 2025”: un contributo mensile di 40 euro, esentasse e non rilevante ai fini ISEE, destinato alle lavoratrici con almeno due figli.
Il contributo verrà erogato in un’unica soluzione a dicembre 2025, per un totale massimo di 480 euro annui.
Una misura che, nella sostanza, sostituisce temporaneamente l’esonero contributivo previsto per il 2026.
Sulla carta, un aiuto.
Nella realtà, l’ennesimo capitolo di una confusione che ha ormai assunto i tratti di un metodo.
Negli ultimi anni, la politica del lavoro italiana è diventata una slot machine di bonus: ogni anno un gettone diverso, un premio diverso, un modulo diverso.
Un anno si riduce l’aliquota INPS, l’anno dopo si cancellano le detrazioni per i figli, poi si inventa l’assegno unico, poi si sposta l’esonero e, nell’attesa, si crea un mini bonus “transitorio”.
Nel frattempo, milioni di famiglie cercano di capire se hanno diritto o no a quei quaranta euro.
E milioni di consulenti del lavoro si ritrovano a decifrare, in corsa, le nuove istruzioni operative.
Non è più welfare: è micro-ingegneria normativa.
Un continuo rimescolamento di regole che disorienta i lavoratori e logora chi le deve applicare.
È come se ogni anno si provasse a “rifare il sistema”, ma senza mai riscriverlo davvero.
Ogni governo corregge quello precedente, ogni decreto sostituisce la misura che non ha funzionato, e ogni circolare promette che “questa volta sarà più semplice”.
Non lo è mai.
Chi lavora nelle aziende lo sa: la semplicità non nasce da un nuovo bonus, ma da stabilità e chiarezza.
E chi lavora negli studi professionali lo sa ancora meglio: perché ogni bonus comporta nuovi codici, nuove piattaforme, nuove scadenze, nuove richieste dei clienti che, inevitabilmente, chiedono: «Ma a me spetta?».
E spesso la risposta è: “dipende”.
Dipende dal reddito, dal numero dei figli, dal tipo di contratto, dalla gestione previdenziale, dalla data di nascita del secondo figlio, e – come sempre – dall’interpretazione del giorno.
Il paradosso è che queste misure vengono raccontate come politiche di sostegno alla natalità, ma finiscono per essere politiche di complicazione amministrativa.
Le madri non chiedono quaranta euro in più a fine anno: chiedono un sistema che non le costringa a compilare l’ennesima domanda online, con scadenze che cambiano se il giorno festivo cade di domenica.
Chiedono un lavoro stabile, un congedo dignitoso, un welfare che non sembri una lotteria.
E le imprese chiedono regole che non cambino a ogni finanziaria.
Invece continuiamo così: a frammentare, a stratificare, a promettere.
Si chiama “bonus mamme”, ma potrebbe chiamarsi “bonus confusione”.
Perché a forza di distribuire piccoli aiuti temporanei, lo Stato ha smesso di costruire certezze.
Ha scelto la comunicazione al posto della programmazione, il messaggio al posto della misura.
Non è questo il modo di aiutare le famiglie.
Non è questo il modo di sostenere le aziende.
E non è questo il modo di rispettare chi ogni mese traduce leggi contraddittorie in numeri, trattenute e cedolini.
Perché a furia di inventare bonus, ci si dimentica che la vera semplificazione non si scrive nelle circolari, ma nelle regole che restano.


